Onorevoli Colleghi!

La necessaria e urgente riforma del processo tributario.

      Nell'attuale sistema tributario, il cittadino contribuente, quando deve esercitare il proprio diritto alla difesa, non si trova in una posizione processuale di parità con il fisco.
      Sino ad oggi, infatti, si è discusso molto sulle norme «sostanziali» ma un'attenta e seria riflessione, purtroppo neppure da parte degli Ordini professionali interessati al problema, non si è mai condotta sulle norme «processuali», che poi sono quelle importanti per far valere, concretamente ed efficacemente, le proprie ragioni giuridiche e di merito, senza dover ricorrere ai concordati o agli accertamenti con adesione.
      La modifica dell'articolo 111 della Costituzione che, finalmente, ha introdotto il principio generale del «giusto processo», valevole anche per quello tributario, deve essere un'occasione di analisi e di approfondimento per tutti gli operatori del settore per rivedere l'intera disciplina del processo tributario.
      Il primo e secondo comma dell'articolo 111 della Costituzione testualmente dispongono che «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.
      Ogni processo si svolge nel contraddittorio fra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata».

 

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      Ed è a questi importanti princìpi, ultimamente ribaditi dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 1540 del 24 gennaio 2007, che deve uniformarsi anche il moderno processo tributario, per evitare possibili, future eccezioni di incostituzionalità, che peraltro già ci sono state.
      Certo, l'esigenza del «giusto» processo e dell'effettivo esercizio del diritto di difesa (articolo 24 della Costituzione) deve conciliarsi con l'esigenza dello Stato di riscuotere le imposte (articolo 53 della Costituzione), e per trovare il corretto equilibrio, secondo noi, senza penalizzare le parti in causa (soprattutto quella più debole, il cittadino-contribuente) è necessario rispettare alcuni fondamentali princìpi processuali.
      Inoltre, bisogna tenere conto anche del cosiddetto «Statuto dei diritti del contribuente» (legge 27 luglio 2000, n. 212), che ha dato attuazione, nell'ordinamento giuridico tributario, ai princìpi costituzionali di cui agli articoli 3, 23, 53 e 97, primo comma, della Costituzione.
      Da ciò discende che lo Statuto dei diritti del contribuente ha uno status di legge di rango costituzionale superiore (Cassazione sentenze n. 7080 del 2004; n. 1757 del 2002; n. 8415 del 2002; n. 11274 del 2001; n. 12462 del 2001; n. 16097 del 2000; Sezioni unite n. 1052 del 2006), non in contrasto con le direttive comunitarie 93/84/CE, prima, e con l'attuale 2006/111/CE. Questa norma statutaria è una legge frutto di una riflessione più avanzata delle prassi interpretative legislative.
      Da ciò deriva che le suddette norme statutarie si pongono certamente in una posizione privilegiata nella gerarchia delle fonti che disciplinano le materie tributarie e quelle finanziarie.
      Oggi ci troviamo di fronte ad un'instabilità crescente dell'ordinamento tributario che crea incertezze e costi sempre più alti. Tra le cattive abitudini del fisco ci sono proprio i continui cambiamenti in corso delle regole e il susseguirsi di norme introdotte da fonti sempre diverse (da ultimo, anche per via di telegrammi e comunicati stampa dell'Agenzia delle entrate, come nella tormentata vicenda degli studi di settore e degli indici di normalità economica).
      Particolari esempi di quanto sopra esposto si possono rilevare nella sentenza della commissione tributaria regionale della Puglia n. 80/9/07 del 19 giugno 2007, che ha stabilito che non ha alcuna valenza giuridica il comunicato stampa con cui l'ufficio tributi di un comune interpreta il regolamento sull'imposta comunale sugli immobili (ICI); effetto retroattivo dei nuovi valori utilizzabili in tema di valutazione di immobili, ai sensi dell'articolo 1, comma 307, della legge n. 296 del 2006.
      Per questo, innanzitutto, è necessario e urgente un codice di diritto tributario che raccolga un corpo organico di tutte le leggi fiscali in modo da semplificare l'attuale astruso quadro normativo e da garantire un più tranquillo e trasparente rapporto tra Stato e contribuente.
      Questo codice dovrebbe contenere anche le norme di un nuovo processo tributario non solo per rendere i giudici tributari sempre più «terzi» e imparziali tra i soggetti in lite ma anche per mettere gli stessi soggetti in una posizione di perfetta parità processuale, oggi non esistente.
      Dall'ultima riforma, attuata con i decreti legislativi n. 545 e n. 546 del 1992, si sono susseguite varie leggi di modifica (legge 28 dicembre 2001, n. 448; testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115; legge 31 maggio 2005, n. 88; legge 2 dicembre 2005, n. 248; decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006), anche nel codice di procedura civile dal 1o marzo 2006; interventi della Corte costituzionale (sentenze n. 189 del 13 giugno 2000, n. 520 del 6 dicembre 2002 e n. 274 del 12 luglio 2005); nonché molteplici interventi della Corte di cassazione, anche a Sezioni unite, che, in alcuni casi (vedi, per esempio, in tema di assistenza del contribuente) hanno generato persino un conflitto con la stessa Corte costituzionale.
      Oltretutto, non bisogna dimenticare che in Parlamento sono stati presentati nel corso degli anni vari progetti di legge di
 

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riforma del processo tributario che, sostanzialmente, si riportavano ai due ordini del giorno, di pressoché identico contenuto, separatamente presentati alla Camera dei deputati in data 15 ottobre 1996 e al Senato della Repubblica in data 24 ottobre 1996, con i quali si impegnava il Governo a presentare in tempi rapidi un apposito disegno di legge volto a razionalizzare e integrare la disciplina e l'organizzazione del contenzioso tributario di cui ai citati decreti legislativi del 1992. In attuazione di questi ordini del giorno, con decreto 27 febbraio 1997 del Ministro Visco, era nominata un'apposita Commissione dai cui lavori derivava il cosiddetto «progetto Marongiu». Parte delle disposizioni ivi contenute veniva poi occasionalmente travasata in vari testi legislativi. In altra versione rimaneggiata, la restante parte rifluiva nel disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri in data 10 settembre 1999 e quindi presentato al Senato per l'approvazione in legge, non avvenuta. Ivi giace altresì il disegno di legge di iniziativa parlamentare comunicato in data 22 gennaio 1995 (atto Senato n. 3766), che riprende nuovamente i dati essenziali del succitato disegno di legge «Marongiu» nella sua versione originaria, a parte le disposizioni già tramutate in legge, integrandoli tuttavia con una nuova disciplina dell'assetto ordinamentale. Tali iniziative parlamentari sul tema si sono arenate.
      A questo punto, si ritiene opportuna un'urgente, radicale e più moderna riforma del processo tributario e, a tale proposito, prendendo spunto da alcuni suggerimenti legislativi contenuti nel libro del 2000 «Per un giusto processo tributario», presentiamo un progetto di legge in proposito, certamente emendabile, che speriamo possa essere da pungolo al mondo politico e professionale per una seria riflessione sul tema.
      Oltretutto, la presente riforma sarebbe a costo zero, a differenza di altri progetti di legge che, se realizzati, porterebbero via dalle casse dello Stato milioni e milioni di euro (si rinvia all'interessante servizio di Italia Oggi, pubblicato il 18 agosto 2007, a pagina 5).
      Nella presente relazione cercheremo di evidenziare sommariamente, senza alcuna pretesa di completezza, i principali istituti processuali che dovrebbero essere riformati per un giusto processo tributario, in modo da ottenere una effettiva tutela del cittadino-contribuente, senza il ricorso ad inutili e illegittimi scioperi fiscali (Cassazione, terza sezione penale, sentenza n. 865 del 1986).

Nuova denominazione e organizzazione delle commissioni tributarie.

      La questione preliminare per una seria riforma del processo tributario è, secondo noi, quella di sganciare totalmente le commissioni tributarie dalla dipendenza e dall'organizzazione del Ministero dell'economia e delle finanze che, in quanto parte interessata nelle controversie, si trova in un evidente conflitto di interessi.
      I giudici tributari non solo devono essere terzi e imparziali ma, soprattutto, apparire tali all'esterno in modo che il cittadino-contribuente non possa nutrire alcun dubbio o sospetto. A tal proposito, si segnala l'interessante sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo del 31 luglio 2007 che ha stabilito i criteri per verificare l'imparzialità dei giudici e, tra questi, ha previsto che «anche le apparenze possono avere una certa importanza perché ciò che è in discussione è la fiducia della collettività sul funzionamento della giustizia» (articolo di Marina Castellaneta in Il Sole 24 ore del 3 settembre 2007, pagina 39).
      A tal proposito, pende al Senato della Repubblica il disegno di legge di riordino della giustizia tributaria (atto Senato n. 1340, comunicato alla Presidenza il 21 febbraio 2007) ad iniziativa dei senatori Benvenuto, Bartolini e Paolo Rossi, in cui si prevede di cambiare la denominazione delle commissioni tributarie in tribunali tributari e corti d'appello tributarie e, inoltre, si prevede di spostarne le competenze, amministrative e organizzative, alla Presidenza del Consiglio dei ministri.
      Questa, secondo noi, è un'ottima soluzione iniziale perché la nuova denominazione

 

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risulta certamente più rispondente alla dignità e all'importanza della funzione e ne connota più incisivamente la giurisdizionalità, tenuto conto che l'attuale denominazione di commissione tributaria rappresenta un retaggio dell'epoca in cui ne era ritenuta la semplice natura amministrativa.
      Il suddetto disegno di legge, che nella prima parte del presente progetto abbiamo ripreso apportando, però, alcuni correttivi, prevede, infatti, l'attribuzione al Presidente del Consiglio dei ministri e alla Presidenza del Consiglio dei ministri delle attuali funzioni e competenze del Ministro e del Ministero dell'economia e delle finanze, per assicurare, anche e soprattutto nell'apparenza, la piena e completa autonomia della giurisdizione e della magistratura tributarie, tenuto conto anche delle fondate e forti critiche della dottrina del diritto pubblico, amministrativo, tributario e processuale, nonché degli operatori del processo tributario, sull'attuale assetto.
      Certo, questo è un primo passo della riforma organizzativa che, in prospettiva, deve tendere alla creazione di un giudice tributario professionale, a tempo pieno, competente, ben retribuito e organizzato, monocratico in primo grado e collegiale in grado di appello, con segreterie autonome.
      In particolare, è proprio l'attuazione nel processo tributario del principio di imparzialità del giudice che dovrebbe necessariamente portare alla devoluzione delle controversie tributarie ad un giudice togato, ossia professionale e a tempo pieno.
      Tale figura potrebbe essere collegata alla figura del giudice ordinario con eventuali possibili sezioni specializzate per le controversie tributarie. Restando nell'ambito dell'attuazione del «giusto processo», appare di non secondaria importanza anche la necessità di attuare il principio di «parità delle parti nel processo», attualmente ancora sbilanciato a favore dell'Amministrazione finanziaria.
      Oltretutto, la cosiddetta «Commissione parlamentare dei trenta», chiamata ad esprimere il proprio parere sui decreti delegati adottati in base all'articolo 30 della legge n. 413 del 1991, già allora affermava che l'attuale sistema del processo tributario «non può essere considerato il punto finale del percorso indispensabile per pervenire ad un sistema del contenzioso tributario del tutto soddisfacente. Restano, invero, irrisolte alcune rilevanti questioni, tra le quali un posto di preminente rilievo è da riconoscere all'istituzione di un giudice a tempo pieno, idoneo in tal modo ad assicurare piena professionalità, indipendenza ed impegno. Di tale questione e di altre ancora il Parlamento dovrà occuparsi affinché il processo di cambiamento avviato arrivi a soddisfacente e piena conclusione» (parere della Commissione parlamentare dei trenta, in Codice del processo tributario, a cura di Giovanni Ferraù, Ipsoa, Milano, 2003, pagine 88-89).
      In sostanza, si deve tendere, insieme alla magistratura ordinaria e amministrativa, alla previsione, anche costituzionale, di una magistratura tributaria totalmente autonoma, con giudici specializzati, come ultimamente è stato previsto in materia di proprietà industriale e intellettuale (legge 12 dicembre 2002, n. 273, e decreto legislativo 27 giugno 2003, n. 268). In tal senso si esprimono le corrette conclusioni dell'interessante convegno della Confederazione unitaria giudici italiani tributari (CUGIT) del 18 maggio 2007 che si è svolto a Milano e dal titolo «Giustizia tributaria - verso il riconoscimento costituzionale» (le cui relazioni sono pubblicate su Tribuna finanziaria, n. 3, 2007).
      Oltretutto, la creazione di una magistratura tributaria, specializzata e autonoma, anche in vista dell'allargamento delle proprie competenze, può evitare un ulteriore intervento della Corte costituzionale sul divieto di istituire giudici speciali, in base all'articolo 102, secondo comma, della Carta costituzionale, nonostante il parere contrario della Corte di cassazione a Sezioni unite, con la sentenza n. 13902 del 14 giugno 2007.
      Ultimamente, il Consiglio di Stato ha bocciato il regolamento di cui al decreto del Ministro dell'economia e delle finanze contenente i criteri per la valutazione
 

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della professionalità dei giudici tributari che partecipano alle selezioni.
      Il Consiglio di Stato non ritiene giustificato il ricorso al punteggio aggiuntivo di due punti ai componenti al Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, in relazione al criterio attitudinale, da riconoscere nella misura del punteggio massimo previsto; inoltre, il punteggio per la laboriosità non può e non deve dipendere solo dall'auto-relazione presentata dagli interessati.
      Infine, ad essere bocciato è stato anche il ricorso al regolamento stesso; visto che la materia non è di competenza esclusiva del Ministero ma è concorrente con il Consiglio di presidenza, era necessario emanare un decreto non regolamentare.
      È chiaro che, in sede di riforma, si deve tenere conto anche dei rilievi del Consiglio di Stato per evitare ulteriori bocciature.
      Infine, secondo noi, è giunto il momento di sopprimere definitivamente la Commissione tributaria centrale che, nonostante la sua abrogazione, sin dal 1996, non solo è tuttora funzionante ma della quale è prevista un'attività giurisdizionale per altri trent'anni!
      È un assurdo giuridico che deve essere cancellato, con la trasmissione di tutte le controversie pendenti alle competenti corti d'appello tributarie, per una sollecita definizione delle cause in corso da oltre dieci anni.

Ampliamento della giurisdizione.

      La competenza generale tributaria dei giudici, a seguito della nuova formulazione dell'articolo 2 del decreto legislativo n. 546 del 1992, introdotta dall'articolo 12, comma 2, della legge n. 448 del 2001, ormai può giustificare l'ampliamento della giurisdizione, ricomprendendo questioni di natura, direttamente o indirettamente, tributaria, anche alla luce di recenti sentenze della Corte di cassazione, persino a Sezioni unite (ordinanza n. 123 del 9 gennaio 2007).
      Così si possono attribuire alla cognizione degli organi di giurisdizione tributaria tutte le controversie relative ai contributi previdenziali.
      Ancorché si sostenga da più parti che i contributi previdenziali potrebbero già rientrare nella disciplina introdotta con la modifica precedente, si tratta di un'utile specificazione, considerato che la Corte di cassazione, a Sezioni unite, con due sentenze (n. 4918 del 15 maggio 1998 e n. 10232 del 27 giugno 2003), ha affermato che «la contribuzione previdenziale ha assunto sempre più nel tempo una natura parafiscale», essendo intesa come una prestazione imposta dalla legge a favore di un ente pubblico e, quindi, qualificabile come «un'imposta speciale».
      Le Sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza n. 11082 del 15 maggio 2007, hanno ribadito che il giudice tributario ha competenza esclusiva e generale (non circoscritta ad alcuni aspetti) per tributi e tasse di ogni tipo. Tale competenza è indipendente dalla denominazione del tributo o dal contenuto della domanda presentata dai ricorrenti.
      Pertanto, anche le liti che dovessero sorgere in relazione alle tasse automobilistiche rientrano sempre nella competenza del giudice tributario e non più in quella del giudice ordinario.
      Tenuto conto di tale allargamento di competenze, per evitare duplicazioni di giurisdizione, che tanti disagi, preoccupazioni e decadenze determinano nei confronti dei cittadini-contribuenti, riteniamo opportuno far rientrare nelle competenze dei giudici tributari sia le contestazioni degli atti di esecuzione forzata sia le questioni relative ai risarcimenti danni derivanti da un illecito e illegittimo comportamento degli uffici fiscali, previdenziali, locali e degli agenti della riscossione.
      Non bisogna, altresì, dimenticare che, con la celebre sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione n. 500 del 22 luglio 1999, è stato previsto il risarcimento danni anche per gli interessi legittimi e non più soltanto per i diritti soggettivi e, di conseguenza, questo innovativo principio può valere anche nel diritto tributario.
      A tal proposito, occorre precisare che, ultimamente, il Consiglio di Stato, sezione V,

 

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con la decisione n. 2822 del 31 maggio 2007, ha stabilito che l'esercizio dell'azione risarcitoria nei confronti di una pubblica amministrazione non è necessariamente subordinato alla presentazione del ricorso contro l'atto illegittimo entro sessanta giorni dalla modifica dello stesso.
      Al limite, il risarcimento del danno potrà essere inferiore a fronte del fatto che l'interessato non è stato abbastanza diligente a impugnare l'atto (si rinvia all'articolo di Antonio Ciccia, in Italia Oggi del 18 agosto 2007, pagina 28).
      Tale corretto principio può essere applicato anche al processo tributario, una volta allargata la competenza dei giudici tributari (articolo 2, comma 3).
      Soltanto i rapporti tra privati nel campo fiscale devono rimanere di competenza esclusiva del giudice ordinario, come per esempio nel caso deciso dalla Corte di cassazione, con la sentenza n. 12063 del 24 maggio 2007, relativa ad una controversia avente ad oggetto la rivalsa in materia di imposta sul valore aggiunto (IVA) tra privati. Infatti, non rientrano nell'ambito della giurisdizione tributaria le controversie che riguardano i soli rapporti tra privati (Cassazione, Sezioni unite, sentenza n. 16158 del 15 novembre 2002); un esempio in tale senso è dato dalla sentenza della Corte di cassazione, sezione tributaria, n. 13608 del 16 settembre 2003, dove si stabilisce che solo l'appaltatore può chiedere il rimborso dell'IVA all'Amministrazione finanziaria.
      Infine, la Corte di cassazione a Sezioni unite, con la sentenza n. 13902 del 14 giugno 2007, ha stabilito, correttamente, che la controversia sulla sanzione inflitta dall'Agenzia delle entrate a una società di assicurazione, che si è avvalsa dell'opera libero-professionale di due medici dell'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) senza munirsi della necessaria autorizzazione dell'ente, è di competenza dei giudici tributari (sentenza preceduta dalla più sommaria ordinanza n. 3182 del 14 febbraio 2007 della stessa Corte).
      L'articolo 12, comma 2, della legge n. 448 del 2001, spiega infatti il collegio, ha attribuito ai giudici tributari la cognizione su tutte le liti aventi ad «oggetto le sanzioni amministrative comunque irrogate da uffici finanziari», individuando così la giurisdizione tributaria non con riferimento alla materia della controversia ma in relazione all'organo competente ad irrogare la relativa sanzione.
      In altre parole, afferma la Corte di cassazione, l'applicazione della sanzione da parte di un ufficio fiscale accredita sempre la giurisdizione tributaria anche nel caso in cui si tratti di un'infrazione diversa da quelle più direttamente fiscali. Viene riconosciuta, in sostanza, la legittimità costituzionale di quelle disposizioni che estendono la giurisdizione tributaria a controversie legate da una connessione stretta ad organi fiscali.
      Appunto per questo è opportuna una precisazione legislativa in merito (articolo 2, comma 1).
      Infine, riteniamo opportuno che i giudici tributari, per la loro competenza, debbano decidere anche in tema di tariffe d'estimo, per l'eventuale disapplicazione.
      Le suddette modifiche legislative, sia in tema di risarcimento danni sia in tema di tariffe d'estimo, servono a superare sia la costante giurisprudenza contraria della Corte di cassazione (sentenze n. 15199 del 2004, n. 4055 del 2007 e n. 8958 del 2007) sia quanto dichiarato dal Sottosegretario all'economia e alle finanze in una risposta ad un'interrogazione parlamentare (Italia Oggi, 19 luglio 2007, pagina 38).

Translatio iudicii.

      La Corte costituzionale, ultimamente, con l'importate sentenza n. 77 del 12 marzo 2007, ha dichiarato costituzionalmente illegittima la norma dell'articolo 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 «nella parte in cui non prevede la conservazione degli effetti della domanda nel processo proseguito, a seguito di declinatoria di giurisdizione, davanti al giudice munito di giurisdizione, ispirandosi essa, viceversa, al principio per cui la declinatoria di giurisdizione comporta l'esigenza di

 

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instaurare ex novo il giudizio senza che gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda originariamente proposta si conservino nel nuovo giudizio».
      Prima ancora, la Corte di cassazione, a Sezioni unite, con la sentenza n. 4109 del 22 febbraio 2007, ha stabilito che, in caso di ritenuto difetto di giurisdizione, opera la regola della translatio iudicii sia in presenza di ricorso ordinario ex articolo 360, numero 1), del codice di procedura civile (previsto per il solo giudizio ordinario e poi esteso, ai sensi dell'articolo 111 della Costituzione, a tutte le decisioni) sia nel caso di regolamento preventivo di giurisdizione proponibile innanzi al giudice ordinario, ma anche innanzi al giudice amministrativo, contabile o tributario. Conseguentemente, il processo iniziato erroneamente davanti a un giudice in difetto di giurisdizione può continuare, così come iniziato, davanti al giudice effettivamente dotato di giurisdizione, al fine di dare luogo ad una pronuncia di merito che conclude la controversia processuale, comunque iniziata.
      La Corte costituzionale e le Sezioni unite della Suprema Corte di cassazione, con le due sentenze sopra citate, su piani diversi e complementari ai rispettivi compiti, sono giunte a un risultato di storico rilievo, precisamente consistente nell'affermata preservazione dell'azione a prescindere dalla giurisdizione in ipotesi erroneamente adita.
      A questo punto è necessario l'intervento legislativo per stabilire, anche nel processo tributario, che il principio della conservazione degli effetti prodotti dal ricorso introduttivo, presentato a un giudice privo di giurisdizione, nel giudizio ritualmente riattivato a seguito di declinatoria di giurisdizione davanti al competente giudice, che ne è munito, dà luogo ad una vera e propria translatio iudicii, come avviene in tema di competenza territoriale, con tutti i favorevoli effetti conservativi di preclusioni e di eventuali risultanze istruttorie acquisite.
      Circa il termine per riassumere il processo, dopo la declinatoria di giurisdizione resa dal giudice del merito, può essere ritenuto congruo il termine semestrale (in tal senso Cesare Glendi, in GT - Rivista di giurisprudenza tributaria, n. 7, 2007, pagine 557 e seguenti).
      La Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 77 del 2007, ha avuto modo di affermare, con molta chiarezza, che l'incomunicabilità dei giudici appartenenti a ordini diversi non è compatibile con la concezione dell'ordinamento giurisdizionale recepito nella nostra Costituzione, dove, invece, la pluralità delle giurisdizioni mira soprattutto a garantire una più adeguata ed efficace tutela dei diritti e degli interessi legittimi azionati, alla stregua degli articoli 24 e 111 della Costituzione, più volte citati. «In chiave evolutiva e, ovviamente, in prospettiva lontana, ma non irraggiungibile, tutto questo non può che avvalorare l'idea, già altrove manifestata (nella relazione «Verso la Corte Suprema della giurisdizione tributaria», presentata in occasione dell'ottantesimo anniversario di Diritto e pratica tributaria), di un nuovo assestamento del riparto delle giurisdizioni, che interessa particolarmente la giurisdizione tributaria e che dovrebbe portare alla coordinata emergenza di tre giurisdizioni, quella ordinaria, quella amministrativa e quella tributaria, tutte dotate di autonomia e di rinnovati apparati di vertice in grado di assicurare una migliore funzionalità dell'attività giurisdizionale nell'ambito dell'ordinamento (...)» (Glendi, opera citata).
      In definitiva, la previsione legislativa, nel processo tributario, del principio della translatio iudicii e della conservazione degli atti tutela al massimo le parti in causa, soprattutto in un settore dove i termini per ricorrere sono alquanto brevi (sessanta giorni) e dove, oggi, alcune volte, non è ben chiara la rispettiva competenza (per esempio, Corte di cassazione, Sezioni unite, sentenza n. 722 del 1999 e, da ultimo, sentenza n. 15 del 2007).

Notificazioni.

      In tema di notificazioni nel processo tributario, specie in questi ultimi anni, è

 

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più volte intervenuta la Corte di cassazione che, in vario modo, ha stabilito una serie di princìpi.
      Alla luce di tali interventi giurisprudenziali, in determinate questioni, si ritiene sia opportuno che il legislatore intervenga, finalmente, a disciplinare in maniera chiara e precisa la predetta materia al fine di evitare che il contribuente sia soggetto ad una normativa confusa e farraginosa (vedi per esempio, Cassazione, Sezioni unite, sentenza n. 15891 del 13 luglio 2006).
      A tale proposito, si devono evidenziare le seguenti, principali soluzioni legislative, consacrate negli articoli 16 e 17 e nell'articolo 22, comma 1.

A) Raggiungimento dello scopo.

      La Corte di cassazione, a Sezioni unite, con la sentenza n. 19854 del 5 ottobre 2004, ha stabilito che la nullità dell'avviso di accertamento tributario, pur essendo un atto di natura amministrativa e non processuale, può essere sanata, ai sensi degli articoli 156, ultimo comma, e 160 del codice di procedura civile, in relazione al conseguimento della finalità dell'atto stesso di portare a conoscenza del destinatario i termini della pretesa tributaria e consentirgli, così, un'adeguata difesa. Tale importante principio, tuttavia, non deve essere inteso mai nel senso di attribuire, ex tunc, validità ad un intempestivo atto di esercizio del potere di accertamento, salvo che il conseguimento dello scopo avvenga entro il termine allo scopo previsto dalle singole leggi di imposta.
      Nonostante tale principio, riteniamo opportuno che il legislatore, relativamente al processo tributario, prenda una posizione totalmente diversa, nel senso di non consentire mai, in materia di notificazioni degli atti amministrativi non aventi natura prettamente processuale (per esempio, per gli avvisi di accertamento), l'applicazione degli articoli 156, ultimo comma, e 160 del codice di procedura civile; questo per non limitare la difesa dei contribuenti nel proporre eccezioni procedurali, rilevanti ai fini della sentenza.

B) Relazione di notificazione.

      Nel processo tributario, in tema di relazione di notificazione, deve scrupolosamente osservarsi l'articolo 148 del codice di procedura civile e in particolare il primo comma, che testualmente dispone: «L'ufficiale giudiziario certifica l'eseguita notificazione mediante relazione da lui datata e sottoscritta, apposta in calce all'originale e alla copia dell'atto».
      In sostanza, come peraltro ha chiarito la Corte di cassazione con la sentenza n. 6750 del 21 marzo 2007, la relazione di notifica di un atto, che l'articolo 148 citato vuole sia apposta solo in calce alla copia dell'atto notificato, e non in qualsiasi altra sede topografica dell'atto stesso, ha la specifica funzione garantistica di richiamare l'attenzione del notificatore alla regolare esecuzione dell'operazione di consegna della copia conforme all'originale; di talchè, solo la regolare effettuazione di questo adempimento conferisce fede privilegiata alla relazione redatta dal pubblico ufficiale, con la conseguenza che deve essere dichiarata nulla, per esempio, la notifica della sentenza di primo grado che sia stata eseguita senza il rispetto di tale modalità, mediante, invece, una relata apposta soltanto sul frontespizio dell'originale.
      L'applicazione scrupolosa dell'articolo 148 del codice di procedura civile deve essere prevista anche nel processo tributario, a pena di nullità insanabile.
      Il principio, peraltro, secondo noi, dovrebbe estendersi anche alla notifica degli atti impositivi, atteso che l'articolo 60 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, richiama espressamente le norme del codice di procedura civile per disciplinare le modalità di notificazione di tali atti.
      Ciò darebbe maggiori garanzie al cittadino contribuente.
      Qualora non sia esibita la ricevuta di cui all'articolo 109 del decreto del Presidente

 

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della Repubblica n. 1229 del 1959 (ordinamento degli Ufficiali giudiziari), la prova della tempestiva consegna all'ufficiale giudiziario dell'atto da notificare può essere ricavata anche dal timbro apposto su tale atto recante il numero cronologico e la data.
      Non potendo attribuirsi a tale timbro valore di prova legale in ordine alla data di consegna dell'atto da notificare all'ufficiale giudiziario, l'idoneità probatoria in questione viene meno in caso di contestazione, per qualsiasi motivo, della conformità al vero di quanto da esso indirettamente risulta.
      In tal caso, l'interessato dovrà farsi carico di esibire idonea certificazione dell'ufficiale giudiziario (Cassazione, Sezioni unite, sentenza n. 14294 del 20 giugno 2007).

C)  Inversione dello schema procedimentale.

      La Corte di cassazione, con la sentenza n. 10958 del 14 maggio 2007, ha stabilito che, in caso di notificazione dell'atto di impugnazione di una sentenza della commissione tributaria provinciale a mezzo posta o tramite consegna presso l'ufficio, l'utilizzo di copia dell'atto per la notifica e il deposito dell'originale nella segreteria della commissione tributaria, pur invertendo lo schema procedimentale (articoli 22, comma 1, e 53), integra non un'ipotesi di nullità, bensì una mera irregolarità formale. Essa, pertanto, non comporta l'inammissibilità dell'impugnazione, non potendosi fare discendere tale sanzione dalla mancanza, nella copia notificata dell'atto, della sottoscrizione dell'autore, che deve essere ritenuta presente per relationem, attraverso l'implicito rinvio all'originale depositato presso la segreteria della commissione e potendo eventuali contestazioni essere sempre rivolte dal giudice tributario, mediante l'ordine di esibizione dell'originale del ricorso (articolo 22, comma 5).
      È opportuno consacrare con legge questo importante principio, per evitare che semplici irregolarità formali possano compromettere l'esito del giudizio (articolo 22, comma 1).

D) Messi autorizzati.

      La Corte di cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 22849 dell'11 novembre 2005, ha precisato che i messi notificatori dell'Amministrazione finanziaria, previsti dall'articolo 60, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, al pari dei messi comunali, non sono abilitati ad effettuare notificazioni dinanzi agli organi giudiziari in senso proprio, neppure in via eccezionale.
      Anche questa importante precisazione merita di essere confermata a livello legislativo, con l'aggiunta che le eventuali notificazioni da essi compiute devono considerarsi (articolo 16, comma 4) inesistenti (nullità insanabile), come previsto per i giudizi pendenti o promuovibili davanti all'autorità giudiziaria ordinaria (si rinvia alle sentenze della Corte di cassazione n. 16591 del 23 agosto 2004 e n. 8625 del 6 maggio 2004).
      Anche questo è un modo di parificare la giustizia tributaria a quella ordinaria, in prospettiva di quanto esposto in precedenza.

E) Notifica plurima.

      Con l'ordinanza n. 14335 del 20 giugno 2007, la Corte di cassazione, sezione tributaria, ha rimesso gli atti alle Sezioni unite per stabilire la legittimità della notifica di un'unica copia di un atto presso il procuratore che rappresenta, invece, una pluralità di parti. Ma non solo, la Suprema Corte ha, infatti, colto l'occasione per dirimere anche un altro contrasto, relativo all'applicazione, nel processo tributario, dell'articolo 330 del codice di procedura civile, con riferimento alle modifiche delle impugnazioni presso il procuratore costituito.
      Sulle suddette problematiche vi è, tuttora, un insanabile contrasto nella sezione

 

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tributaria della Corte e, con l'ordinanza citata, si sollecita la composizione del contrasto, ritenendo, peraltro, maturi i tempi per prospettare la validità della notifica di una sola copia dell'atto al procuratore costituito per una pluralità di parti.
      Tutto ciò in ragione, innanzitutto, dell'introduzione anche nel diritto tributario del principio della ragionevole durata del processo (articolo 111 della Costituzione) ad opera di una sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e, in secondo luogo, in virtù del fatto che si debba, sempre, prediligere un sistema che assicuri al cittadino una più rapida conclusione dei processi.
      A tal proposito, riteniamo opportuno che anche nel processo tributario (articolo 17), come ha chiarito la sentenza della Cassazione n. 5777 del 2000, sia applicabile tanto l'articolo 330 del codice di procedura civile (luogo di notificazione dell'impugnazione) quanto la regola della validità della notifica di una sola copia dell'atto al procuratore costituito per una pluralità di parti, anche alla luce della sostanziale modifica della difesa tecnica (articolo 12) da affidare solo a professionisti processualmente competenti e preparati, come gli avvocati (articolo 7 del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36).

Rimessione in termini.

      In ambito fiscale può accadere che il contribuente, per cause a lui non imputabili o per errore scusabile, non riesca a proporre tempestivo ricorso nei termini di decadenza previsti dalla legge, con la conseguenza che si rende definitivo l'atto dell'ufficio, con gravi pregiudizi economici.
      A tale proposito, tenendo conto del principio costituzionale dell'articolo 53 dell'effettiva capacità contributiva, riteniamo opportuno inserire nell'articolo 21 l'istituto processuale della rimessione in termini anche per le situazioni esterne allo svolgimento del giudizio, contrariamente a quanto avviene nel processo civile, attesa, peraltro, la discrezionalità del legislatore nell'individuazione delle regole che disciplinano l'attività processuale, e dei termini perentori in particolare (Cassazione, sentenza n. 12132 del 9 agosto 2002), soprattutto alla luce degli articoli 3, 24 e 38 della Costituzione.
      Certo, in un siffatto contesto, i giudici tributari devono stare particolarmente attenti a valutare le prove poste a giustificazione del contribuente, per evitare situazioni di prolungato conflitto.
      In ogni caso, il contribuente, qualora non riesca a dimostrare ciò, e l'atto si renda definitivo, può sempre utilizzare l'istituto dell'autotutela, che verrà trattato successivamente.

Atti impugnabili.

      Ultimamente, la Corte di cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 17119 del 3 agosto 2007, ha precisato che l'oggetto del processo tributario, atteso il meccanismo di instaurazione di tipo impugnatorio che lo caratterizza, non attiene all'accertamento dell'obbligazione tributaria, da condurre attraverso una diretta ricognizione della disciplina applicabile e dei fatti rilevanti sulla base di essa, a prescindere da quanto risulta nell'atto impugnato. Tale meccanismo impugnatorio consiste, invece, nell'accertamento della legittimità della pretesa tributaria, in quanto avanzata con l'atto impugnato e alla stregua dei presupposti, in fatto e in diritto, in tale atto indicati.
      Inoltre, ultimamente, la Corte di cassazione, con la sentenza n. 17526 del 9 marzo 2007, depositata il 9 agosto 2007, ha precisato che la fattura della tariffa igiene ambientale (TIA) è impugnabile dinanzi ai giudici tributari, in quanto ha natura di atto amministrativo impositivo.
      Recentemente, la Corte di cassazione, a Sezioni unite, con l'importante sentenza n. 16428 del 26 luglio 2007, ha stabilito che devono essere qualificati come avvisi di accertamento, ovvero di liquidazione, quegli atti che contengono, nella sostanza,

 

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una pretesa impositiva definitiva e non condizionata, come gli avvisi bonari a versare il dovuto, ad esempio, per evitare di pagare ulteriori spese o per aderire a qualche beneficio.
      Pertanto, è importante, nel processo tributario, evidenziare bene gli atti impugnabili e, per quanto possibile, stabilire i limiti dei giudici tributari.

A) Istanza di rimborso.

      Le istanze di rimborso, da presentare quando il cittadino-contribuente non ha avuto concreta ed effettiva soddisfazione da parte dell'Amministrazione finanziaria, possono senz'altro riguardare anche gli interessi anatocistici (articolo 1224, secondo comma, del codice civile) e la rivalutazione monetaria (articolo 1283 del codice civile), come peraltro più volte ammesso dalla Corte di cassazione (da ultimo, con le sentenze n. 10783 dell'11 maggio 2007 e n. 16871 del 31 luglio 2007 delle Sezioni unite).
      Infatti, la compatibilità (già affermata dalla sezione tributaria della Corte di cassazione, con la sentenza n. 2087 del 4 febbraio 2004) della disciplina degli interessi moratori contenuta in leggi speciali con il risarcimento del maggior danno, di cui all'articolo 1224, secondo comma, del codice civile, invero, non esclude che anche nei debiti di restituzione di somme di denaro versate a titolo di imposta il danno da inadempimento o da ritardo subìto dal contribuente creditore sia determinato, come nelle ordinarie obbligazioni di diritto civile (Cassazione, sezione III, sentenza n. 4197 del 13 maggio 1997), attraverso gli interessi legali sulla somma dovuta (intesi per «legali» anche gli interessi previsti nelle leggi speciali); per cui è sempre necessario che il creditore deduca e dimostri, documentalmente o per presunzioni, di aver subìto un maggior danno.
      Inoltre, la svalutazione monetaria verificatasi durante la mora del debitore non giustifica, di per sé sola, il risarcimento automatico, sicché, a prescindere dagli oneri probatori posti a carico della parte istante, il maggior danno, rispetto a quello coperto dalla misura degli interessi legali, non può essere riconosciuto dal giudice in difetto di una specifica e documentata domanda (in tal senso, Cassazione, sentenza n. 24858 del 25 novembre 2005 e Cassazione, sezione I, sentenza n. 1087 del 1o ottobre 1999).
      Di conseguenza, tale richiesta non può mai essere formulata per la prima volta in grado di appello, stante il divieto di cui all'articolo 345 del codice di procedura civile, applicabile anche al processo tributario, come sarà chiarito in seguito.
      Di converso, l'autonomia della domanda comporta che la statuizione attributiva del maggior danno, se non specificamente impugnata, è suscettibile di passaggio in giudicato, sia nell'an che nel quantum debeatur.
      Infine, l'attribuzione degli interessi sugli interessi scaduti, secondo la specifica previsione di cui all'articolo 1283 del codice civile (Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 4935 dell'8 marzo 2006, e sezione III, sentenza n. 7507 del 4 giugno 2001), postula anch'essa una specifica e documentata domanda del creditore, autonoma e distinta rispetto a quella rivolta al riconoscimento degli interessi principali, per cui, quando sia stata proposta in primo grado solo tale ultima domanda, la richiesta degli interessi anatocistici non può essere avanzata per la prima volta in grado di appello, ostandovi il medesimo divieto del citato articolo 345 del codice di procedura civile (articolo 57, comma 1), perché nuova rispetto a quella proposta per il solo riconoscimento degli interessi principali scaduti, a nulla rilevando (Cassazione, sezione III, sentenza n. 9474 del 19 maggio 2004), ai fini dell'applicabilità di tale principio, la natura corrispettiva o moratoria degli interessi principali.
      Gli interessi anatocistici in questione, pertanto, in difetto di apposita domanda, non possono essere riconosciuti d'ufficio dal giudice (Cassazione, sezione I, sentenza n. 8377 del 20 giugno 2000).
      L'articolo 37, comma 50, del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006,

 

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con effetto dal 4 luglio 2006, ha stabilito che: «Gli interessi previsti per il rimborso dei tributi non producono in nessun caso interessi ai sensi dell'articolo 1283 del codice civile».
      Tale norma, eccessivamente penalizzante per il contribuente, è applicabile, però, dal 4 luglio 2006 in poi e non riguarda certo i periodi precedenti (Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 24992 del 24 novembre 2006).
      Inoltre, la liquidazione del danno da svalutazione monetaria non è automatica nel settore tributario. L'imprenditore che vanti un credito di imposta nei confronti del fisco è tenuto a provare di aver subìto un maggior danno per l'indisponibilità del denaro, oltre quello che normalmente è risarcito con il pagamento degli interessi, come ha chiarito la Corte di cassazione, Sezioni unite, con la sentenza n. 16871 del 31 luglio 2007.
      I corretti princìpi giurisprudenziali citati li abbiamo consacrati nelle disposizioni di cui all'articolo 19, comma 1, lettera i), all'articolo 57, comma 3, e all'articolo 70, comma 8, come sarà chiarito meglio in seguito.
      Inoltre, la Corte di cassazione, con le sentenze n. 14911 del 2007 e n. 1433 del 2000, ha affermato l'ulteriore, importante principio che, in tema di rimborso di imposta, il fatto che la disciplina di cui all'articolo 38 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, preveda la concorrente legittimazione di due soggetti a presentare istanza di rimborso non significa che, ai fini della successiva fase dell'instaurazione del processo tributario, relativo all'eventuale rifiuto (esplicito o implicito) dell'Amministrazione finanziaria, ciascuno dei soggetti possa beneficiare dell'istanza presentata esclusivamente dall'altro, sostituendosi processualmente allo stesso in caso di eventuale inerzia di quest'ultimo, successivamente alla presentazione dell'istanza di rimborso. Per un'ipotesi di sostituto di imposta «di fatto» si rinvia alla risoluzione n. 234/E del 22 agosto 2007 dell'Agenzia delle entrate.
      Infatti, il «sostituito» di imposta che non abbia presentato tempestiva istanza di rimborso dell'imposta, per lui indebitamente pagata dal «sostituto», previa effettuazione della ritenuta, non può neppure impugnare davanti al giudice tributario l'eventuale provvedimento dell'Amministrazione finanziaria con il quale sia stata rigettata l'istanza di rimborso, tempestivamente presentata, invece, dal coobbligato di imposta.
      D'altronde, neppure il «sostituito» può avvalersi dello schema dell'integrazione del contraddittorio nei confronti del «sostituto», onde superare le conseguenze dell'eventuale inerzia processuale del medesimo, posto che, da un lato, la solidarietà di imposta sussistente fra i due soggetti in questione non dà luogo a litisconsorzio necessario e posto che, in ogni caso, l'eventuale provocato intervento del «sostituto» non verrebbe a sanare le preclusioni a sua volta maturatesi nei confronti di quest'ultimo, in virtù della mancata impugnazione del provvedimento di diniego di rimborso. È, invece, da confermare il litisconsorzio necessario dell'ufficio dell'Agenzia fiscale (articolo 2, comma 7).

B) Autotutela.

      L'istituto dell'autotutela, previsto e disciplinato dall'articolo 68 del decreto del Presidente della Repubblica 27 marzo 1992, n. 287, e dal regolamento di cui al decreto del Ministro delle finanze 11 febbraio 1997, n. 37, è un atto discrezionale dell'Amministrazione finanziaria con il quale si possono annullare, in tutto o in parte, atti illeciti o illegittimi, sempre che non sia intervenuta sul caso una sentenza di merito passata in giudicato.
      Sul sindacato giurisdizionale sull'autotutela ci sono state, nel corso degli anni, varie sentenze tra loro contrastanti.
      Infatti, secondo il Consiglio di Stato (sezione IV, decisione n. 6269 del 9 novembre 2005), la competenza a decidere era del giudice amministrativo.
      Invece, secondo la Corte di cassazione (Sezioni unite, sentenza n. 16776 del 10

 

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agosto 2005; sezione tributaria, sentenza n. 22564 del 1o dicembre 2004) e molte commissioni di merito (a partire dalla commissione tributaria provinciale di Lecce, n. 45 del 23 aprile 2002), la competenza è sempre della giurisdizione tributaria sia nelle ipotesi di rifiuto espresso o tacito sia per vizi originari o per eventi sopravvenuti di tale atto. Ultimamente, la Corte di cassazione, a Sezioni unite, con l'importante sentenza n. 7388 del 6 febbraio 2007, depositata il 27 marzo 2007, è tornata nuovamente sull'argomento per confermare che l'attribuzione al giudice tributario, da parte dell'articolo 12, comma 2, della legge n. 448 del 2001, di tutte le controversie in materia di tributi di qualunque genere e specie comporta, necessariamente, che anche quelle relative agli atti di esercizio dell'autotutela tributaria, in quanto comunque incidenti sul rapporto obbligatorio tributario, devono ritenersi sempre devolute al giudice la cui giurisdizione è radicata in base alla materia (in precedenza su alcuni tributi, attualmente su qualunque tributo), indipendentemente dalla specie dell'atto impugnato.
      Ed invero l'attribuzione al giudice tributario di una controversia che può concernere la lesione degli interessi legittimi non incontra alcun limite nell'articolo 103 della Costituzione; infatti, secondo una costante giurisprudenza costituzionale, non esiste una riserva assoluta di giurisdizione sugli interessi legittimi a favore del giudice amministrativo, potendo sempre il legislatore attribuire la relativa tutela ad altro giudice.
      Tale assunto giurisprudenziale comporta che il sindacato del giudice tributario dovrà riguardare non soltanto l'esistenza dell'obbligazione tributaria (ove l'atto di esercizio del potere di autotutela contenga una tale verifica), ma, prima di tutto, il corretto esercizio del potere discrezionale dell'Amministrazione finanziaria, nei limiti e nei modi in cui l'esercizio di tale potere può essere suscettibile di controllo giurisdizionale.
      Alla luce di tali definitive precisazioni giurisprudenziali, per evitare ulteriori polemiche e questioni, soprattutto per quanto riguarda i limiti di tale giurisdizione, crediamo sia ormai giunto il momento di disciplinare la questione in modo compiuto.
      A tale proposito, abbiamo previsto non solo l'impugnabilità del diniego, espresso o tacito, dell'istanza di autotutela (articolo 19, comma 1, lettera l)), ma soprattutto la possibilità dei giudici tributari di decidere, nel merito, del rapporto tributario sottostante (articolo 19, comma 5), persino in base ad equità, non impugnabile, salvo i limiti di cui agli articoli 19, comma 5, 36, comma 1, e 50, comma 2.
      Solo in questo modo, secondo noi, si realizza concretamente il disposto dell'articolo 53 della Costituzione, in base al quale ciascuno deve concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria effettiva capacità contributiva.

C) Compensazioni.

      Qualora l'erario si avvalga dell'istituto del fermo amministrativo di cui all'articolo 69 del regio decreto n. 2440 del 1923 per cui il pagamento di un credito d'imposta viene sospeso e il provvedimento successivamente perde di efficacia, al contribuente devono sempre essere riconosciuti gli interessi legali dal momento della costituzione in mora (in tale senso, commissione tributaria provinciale di Palermo - sezione I - con la sentenza n. 297/1/06 del 24 aprile 2007).
      Inoltre, sempre in base alla suddetta sentenza, il provvedimento di compensazione di un credito vantato dal contribuente con un debito tributario dello stesso, ai sensi dell'articolo 23 del decreto legislativo n. 472 del 1997, è sempre impugnabile davanti al giudice tributario, perché tale norma prevede espressamente l'impugnabilità del provvedimento di sospensione.
      Infine, si conferma l'impugnabilità del divieto di compensazione di ogni tipo (articolo 19, comma 1, lettera i)), compreso il divieto di compensazione orizzontale del credito IVA per le società di

 

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comodo, introdotto dal citato decreto-legge n. 223 del 2006, che peraltro vale a partire dall'eccedenza risultante dalla dichiarazione annuale relativa al 2006, anche se comprendente crediti riportati da periodi precedenti (risoluzione n. 225 del 10 agosto 2007 dell'Agenzia delle entrate).
      Di conseguenza, non ha commesso alcuna violazione la società che ha compensato il credito risultante dalla dichiarazione relativa al 2005.
      Oltretutto, non bisogna dimenticare che la Corte di cassazione ha ritenuto il principio di compensazione una «espressione dei valori fondamentali portati dalla Carta Costituzionale» (Cassazione, sentenze n. 5860 del 2001 e n. 4760 del 2001).

D) Misure cautelari.

      Le misure cautelari dell'ipoteca e del sequestro conservativo, previste dall'articolo 22 del decreto legislativo n. 472 del 1997, possono essere disposte solo a garanzia del credito riguardante le sanzioni amministrative applicate e non anche, cumulativamente, a tutela del credito per i relativi tributi.
      Inoltre, le misure cautelari del sequestro conservativo e dell'ipoteca, previste dal citato articolo 22, possono essere concesse dall'adito giudice tributario anche dopo l'adozione dell'avviso di accertamento, a condizione che quest'ultimo atto contenga anche l'irrogazione delle relative sanzioni (in tal senso, correttamente, commissione tributaria provinciale di Genova, sezione I, con la sentenza n. 369 del 15 novembre 2006).
      A tale proposito, a livello legislativo, è opportuno ulteriormente precisare che l'ipoteca e il sequestro conservativo non devono mai estendersi sino a tutelare pure i crediti per i tributi e i relativi interessi (articolo 19, comma 1, lettera g)).

E) Cartella di pagamento.

      Una particolare problematica, tuttora non risolta, riguarda la legittimità o meno dell'emissione di una cartella di pagamento quando non sia stata preceduta dalla rituale notificazione del relativo avviso di accertamento.
      Tanto è vero che, per dirimere la questione, la Corte di cassazione, sezione tributaria, con l'ordinanza n. 7263 del 26 marzo 2007, ha rimesso gli atti al primo presidente per l'eventuale rinvio alle Sezioni unite.
      Infatti, in materia, si sono non recentemente espresse anche le Sezioni unite della Corte che, pronunciandosi sulla giurisdizione delle commissioni tributarie in tema di impugnativa dell'avviso di mora, hanno anche affermato che giusto il disposto del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 1981, n. 739, articolo 7, che, sostituendo, con effetto dal 1o gennaio 1982, il decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 636, articolo 16, ha espressamente previsto la ricorribilità delle dette commissioni avverso tale atto, anche per motivi diversi da quelli relativi a vizi suoi propri, allorché esso non sia stato preceduto dalla notificazione dell'avviso di accertamento o dell'avviso di liquidazione dell'imposta (Cassazione, Sezioni unite, sentenze n. 1455 del 1993, n. 7553 del 2002 e n. 16464 del 2002).
      Invece, in contrapposizione alla suddetta tesi, si va attualmente affermando un diverso e più drastico orientamento, che ritiene sempre necessaria la precedente notifica della cartella esattoriale in quanto il cittadino viene, per la prima volta, a conoscenza della pretesa fiscale attraverso tale atto per il quale la legge richiede l'indicazione dei motivi della liquidazione e dei dati su cui tale pretesa si fonda, elementi questi non richiesti per l'emissione dell'avviso di mora (Cassazione civile, sentenze n. 11227 del 2002, n. 16875 del 2003, n. 2798 del 2006 e n. 7648 del 2006).
      Tale ultimo orientamento, relativo alla nullità dell'avviso di mora se non preceduto dalla previa notifica della cartella esattoriale, in due recentissime decisioni è stato, peraltro, diversamente motivato, nell'una, sostenendo che l'Amministrazione

 

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finanziaria non è libera di agire a suo piacimento ma «deve rispettare le cadenze imposte dalla legge, che esige che la notificazione della cartella esattoriale sia adempimento indefettibile la cui mancanza comporta la nullità dell'avviso di mora, indipendentemente dalla completezza o meno delle indicazioni in esso contenute» (Cassazione, sentenza n. 2798 del 2006); nell'altra (sentenza n. 7649 del 2006), più articolata, pur richiamando il principio precedente, la Corte ha sostenuto, con riguardo al diritto vigente anteriormente al decreto legislativo n. 46 del 1999, che:

          1) è sempre onere del concessionario (oggi agente della riscossione) di procurarsi la prova che il contribuente sia stato messo nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità della cartella di pagamento, con la conseguenza che la mancata notifica è da equiparare all'irrituale notificazione, perché tanto l'una quanto l'altra sono improduttive della conoscibilità dell'atto;

          2) la necessità che la notificazione della cartella di pagamento preceda sempre l'avviso di mora si giustifica con l'esigenza di tutelare l'interesse del contribuente ad avere a sua disposizione tutto il tempo consentito dalla legge per effettuare il pagamento (sessanta giorni); tempo che l'esattore non può e non deve ridurre a suo piacimento;

          3) inoltre, le norme processuali relative all'impugnazione degli atti conseguenti sono integrative ma cedenti rispetto alle norme sostanziali che regolano gli atti stessi ed i loro atti presupposti; per cui il decreto legislativo n. 546 del 1992, articolo 19, comma 3, che consente l'impugnazione congiunta di atti presupposti di imposizione tributaria e di atti conseguenti, è una norma stabilita esclusivamente a favore del contribuente, che gli consente di impugnare, solo se lo vuole, tutti gli atti presupposti non notificati o quelli che avrebbero dovuto essere notificati (pena il potere dell'Amministrazione finanziaria di non notificare tali atti, vincolando il contribuente alla loro impugnazione).

      Ultimamente, la Corte di cassazione a Sezione unite, con l'importante sentenza n. 16412 del 25 luglio 2007, ha risolto il suddetto contrasto giurisprudenziale, accogliendo la seconda tesi, più favorevole al contribuente. Infatti, la Corte ha stabilito che «la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza ordinata secondo una progressione di determinati atti, con le relative notificazioni, destinati, con diversa e specifica funzione, a farla emergere e a portarla nella sfera di conoscenza dei destinatari, allo scopo, soprattutto di rendere possibile per questi ultimi un efficace esercizio del diritto di difesa.
      Nella predetta sequenza, l'omissione della notificazione di un atto presupposto costituisce vizio procedurale che comporta la nullità dell'atto consequenziale notificato e tale nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante scelta o di impugnare, per tale semplice vizio, l'atto consequenziale notificatogli, rimanendo esposto all'eventuale successiva azione dell'amministrazione, esercitatile soltanto se sono ancora aperti i termini per l'emanazione e la notificazione dell'atto presupposto, o di impugnare cumulativamente anche quest'ultimo (non notificato) per contestare radicalmente la pretesa tributaria. Con la conseguenza che spetta al giudice di merito, la cui valutazione, se congruamente motivata, non sarà censurabile in sede di legittimità, interpretare la domanda proposta dal contribuente al fine di verificare se egli abbia inteso far valere la nullità dell'atto consequenziale in base all'una o all'altra opzione.
      L'azione può essere svolta dal contribuente indifferentemente nei confronti dell'ente creditore o del concessionario e senza che tra costoro si realizzi una ipotesi di litisconsorzio necessario, essendo rimessa alla sola volontà del concessionario, evocato in giudizio, la facoltà di chiamare in causa l'ente creditore».
      Secondo noi è opportuno un chiaro intervento, decisorio e definitivo, da parte del legislatore, nel senso di pervenire ad un'equilibrata posizione che tenga conto,

 

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appunto, dell'effettivo atteggiamento del ricorrente (in tal senso, Massimo Basilavecchia, in GT - Rivista di giurisprudenza tributaria, n. 7, 2007, pagine 575 e seguenti), come deciso dalle Sezioni unite.
      Nel senso che il ricorrente può limitarsi a rilevare soltanto il mancato perfezionamento dell'atto presupposto, ma può anche («gli è consentito») trasferire subito la controversia nel merito, impugnando anche l'atto presupposto insieme a quello consequenziale (articolo 19, comma 4).

Le parti nel processo tributario.

      Le parti di un processo, di norma, sono costituite dalla persona che propone al giudice una domanda (il cosiddetto «attore» o «ricorrente in giudizio») e dalla persona nei cui confronti tale domanda viene proposta (il cosiddetto «resistente in giudizio»).
      Nel processo tributario, di fatto, è l'ufficio l'attore in senso sostanziale, come più volte rilevato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (sentenze n. 18710 del 2005 e n. 27341 del 2005), ed è anche per questo che abbiamo previsto che debba sempre essere l'ufficio ad esporre le proprie ragioni impositorie per primo, affinché venga data la possibilità al contribuente di concludere la discussione, anche dopo brevi repliche (articolo 34, comma 2).

A) Società italiana degli autori ed editori (SIAE).

      La SIAE non può mai essere parte del processo tributario in quanto semplice mandataria dell'Amministrazione finanziaria, come correttamente chiarito dalla Corte di cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 12449 del 28 maggio 2007.
      La SIAE, infatti, deve sempre rimanere estranea al giudizio sulla fondatezza o meno della pretesa fiscale e può rispondere solo dei vizi imputabili alla propria attività esecutiva.
      La legittimazione processuale, infatti, spetta soltanto all'Amministrazione finanziaria e non all'ente che, per mandato, è concessionario della riscossione dell'imposta sugli intrattenimenti e dell'IVA connessa.

B) Enti esponenziali.

      Non devono mai intervenire nel processo tributario gli enti esponenziali (per esempio, associazioni dei consumatori), che si ergono a tutela di una generica e indefinita categoria di contribuenti.
      Ciò in linea con quanto più volte chiarito dalla Corte di cassazione, sezione tributaria, con le sentenze n. 181 del 10 gennaio 2004 e n. 5957 del 14 marzo 2007, nel senso che neppure le associazioni aventi per fine la consulenza e l'assistenza fiscale dei contribuenti, ancorché costituite in forma di organizzazione non lucrativa di utilità sociale (ONLUS), possono intervenire nel giudizio tributario riguardante uno o più contribuenti individuati come tali.
      Il processo tributario, infatti, è un giudizio di tipo «impugnatorio», rivolto alla contestazione di uno specifico atto impositivo, espresso o tacito, secondo la tassativa tipologia elencata nell'articolo 19.
      In tale giudizio non può esserci spazio per l'intervento di enti esponenziali che, come già detto, si ergono a tutela di una generica e indefinita categoria di consumatori, neppure se si tratti di associazioni o comitati formalmente costituiti, in quanto nel processo tributario non trova applicazione l'articolo 9 della legge 7 agosto 1990, n. 241.
      Semmai, qualora tali associazioni o comitati intendano impugnare atti di carattere generale, come i regolamenti o comunque atti amministrativi riguardanti la generalità dei contribuenti o alcune categorie di essi, potranno soltanto adire la giustizia amministrativa, cioè i tribunali amministrativi regionali (TAR) e il Consiglio di Stato, come previsto e disciplinato dall'articolo 3 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034.

 

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      In definitiva, possono intervenire volontariamente o essere chiamati in giudizio solo i soggetti che, insieme al ricorrente, siano destinatari dell'atto impugnato o parti del rapporto tributario controverso.

C) Accertamento negativo.

      Tenendo conto dell'allargamento giurisdizionale dei giudici tributari (articolo 2), crediamo ormai sia giunto il momento di ritenerli competenti anche per le azioni di puro accertamento negativo, attinente la non debenza di un determinato tributo, ove sia sperimentata in via preventiva, in assenza cioè di un atto impositivo dell'Amministrazione finanziaria (articoli 2, comma 8, e 19, comma 1, lettera n)).
      Fino ad oggi la Corte di cassazione, sul punto, è stata negativa, nel senso di non ammettere mai la suddetta azione (Sezioni unite, sentenza n. 10999 del 6 novembre 1993 e sezione tributaria, sentenza n. 9181 del 9 giugno 2003).
      Oggi, però, non riteniamo più giustificabile la suddetta rigida interpretazione perché non bisogna impedire al cittadino contribuente di potersi efficacemente difendere prima di ricevere un atto impositivo, con il rischio delle successive iscrizioni provvisorie.
      Per esempio, se viene accolta la suddetta modifica, il contribuente può avere la possibilità, in tema di redditometro o di studi di settore, di poter adire subito il giudice tributario, senza dover attendere inutilmente la notifica dell'avviso di accertamento.

D) Fallimento.

      La Corte di cassazione, sezione tributaria, con la recente sentenza n. 12893 del 1o giugno 2007, ha precisato che ogni atto del processo tributario deve essere emesso soltanto nei confronti del soggetto esistente al momento e, quindi, per esempio, l'iscrizione a ruolo deve essere posta in essere, unicamente, nei soggetti della società tornata in bonis.
      Con la decisione di fallimento la società non viene meno ma i suoi organi perdono la legittimazione sostanziale e processuale, che viene assunta dalla curatela fallimentare che, per tale ragione, subentra nella posizione della fallita. Ciò comporta che sono opponibili alla curatela (salva la sussistenza dei presupposti di cui all'articolo 2704 del codice civile) gli atti formati nei confronti della società fallita mentre, dopo la dichiarazione di fallimento, gli ulteriori atti del processo devono indicare quale destinataria l'impresa in procedura e quale legale rappresentante della stessa il curatore fallimentare.
      Infine, a puro titolo informativo, citiamo la sentenza della Corte di cassazione, sezione tributaria, n. 12887 del 1o giugno 2007, che ha precisato che il fallimento del contribuente è un motivo idoneo perché lo Stato iscriva nei ruoli straordinari l'imposta dovuta.
      Infatti, permettendo il rapido inserimento nel fallimento della pretesa finanziaria, il ruolo straordinario costituisce «un utile strumento per incidere immediatamente sulla formazione dello stato passivo e dei relativi privilegi».

E) Liquidazione.

      La Corte di cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 1327 del 22 gennaio 2007, ha precisato che nel processo tributario l'eccezione relativa alla mancanza di legittimazione passiva non può mai essere rilevata dal giudice, ma deve essere espressamente sollevata con apposito e specifico motivo nel ricorso introduttivo.
      Inoltre, la contestazione circa la mancanza di responsabilità fiscale non può avvenire per la prima volta attraverso una semplice memoria difensiva ma deve comparire, innanzitutto, tra gli specifici motivi del ricorso.
      La Suprema Corte, infine, con la citata sentenza, afferma che alla cancellazione di una società dal registro delle imprese non

 

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consegue l'automatica estinzione del soggetto, che è invece determinata soltanto dalla liquidazione di tutti i rapporti giuridici pendenti.
      Pertanto, nel caso di specie, l'Amministrazione finanziaria può far valere le eventuali pretese fiscali verso la società con la notifica degli atti al soggetto che deteneva la rappresentanza prima della formale cancellazione della società (in tal senso, Cassazione, sentenze n. 4652 del 2006, n. 3279 del 2006, n. 15691 del 2003, n. 14147 del 2003, n. 7972 del 2000, n. 10380 del 1998).

F) Dirigente dell'ente locale.

      La Corte di cassazione, con l'ordinanza n. 6727 del 21 marzo 2007, ha precisato che nei processi tributari l'ente locale può farsi rappresentare in giudizio anche dal dirigente dell'ufficio tributi ovvero, nel caso in cui questa figura dirigenziale sia assente, dal titolare della posizione organizzativa in cui è collocato tale ufficio.
      Invece, deve considerarsi inammissibile il ricorso per cassazione proposto dal dirigente dell'ufficio tributi, a meno che tale facoltà non gli sia stata espressamente conferita dallo statuto comunale (articolo 11, comma 3), come peraltro chiarito dalla stessa Corte di cassazione, a Sezioni unite, con l'importante sentenza n. 12868 del 16 giugno 2005.

Ammissibilità del ricorso cumulativo.

      La Corte di cassazione, con varie sentenze (n. 7359 del 20 maggio 2002 e n. 19666 del 1o ottobre 2004), ha stabilito, correttamente, che nel processo tributario è sempre ammissibile la proposizione di un unico ricorso cumulativo avverso più atti, dovendo ritenersi applicabile l'articolo 104 del codice di procedura civile, il quale consente la proposizione contro la stessa parte e, quindi, la trattazione unitaria, di una pluralità di domande, anche non connesse tra loro, con il risultato analogo a quello ottenuto nel caso di riunione dei processi.
      La dottrina tributaristica, che si è interessata al problema de quo, tende ad ammettere la possibilità di un ricorso cumulativo, sostenendo che tale possibilità si basa sulle stesse esigenze che giustificano la disciplina della riunione dei processi, secondo noi da rendere obbligatoria per evitare un contrasto di giudicati (articolo 29).
      Il richiamo all'articolo 29 è senz'altro da condividere per l'identica ratio che caratterizza la disciplina dell'articolo 104, primo comma, del codice di procedura civile, anche se c'è da rilevare (ma ciò non è determinante) che l'articolo 29 assegna un potere al giudice tributario e non alla parte.
      In definitiva, in base alla costante giurisprudenza della Corte di cassazione, peraltro più volte ripresa anche dalla giurisprudenza di merito (commissione tributaria regionale della Lombardia, con le sentenze n. 216 del 4 giugno 2002 e n. 23 del 30 giugno 2004, e della Toscana, sezione 13, con la sentenza n. 5 del 19 aprile 2004), si può concludere che, in tema di processo tributario, oggi: 1) nessuna norma prevede l'inammissibilità di un ricorso cumulativo; 2) la possibilità di un ricorso cumulativo, riconosciuta nel processo civile da una norma dettata nella parte generale del codice, e basata principalmente sull'esigenza dell'economia processuale, può benissimo essere estesa alla materia tributaria, anche perché in essa non si pone il problema della competenza per valore.
      In sede di riforma, abbiamo cristallizzato i suddetti concetti nell'articolo 20, comma 3. Un ricorso cumulativo deve, pertanto, sempre ritenersi consentito allorquando siano chiaramente individuati gli atti soggetti a gravame e sia inequivoca la volontà di ricorrere avverso ognuno di essi.

Processo tributario e principio di non contestazione.

      Una recente sentenza della Corte di cassazione, sezione tributaria (n. 1540 del

 

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24 gennaio 2007) fornisce lo spunto per risolvere definitivamente il problema se nel processo tributario sia applicabile o meno il cosiddetto «principio di non contestazione».
      Il suddetto principio può essere sinteticamente riassunto nel modo seguente: un fatto non contestato dalla parte avversa non è bisognevole di prova e, dunque, il giudice deve considerarlo, a tutti gli effetti, vero, decidendo di conseguenza.
«In altri termini, i fatti non contestati, quale che sia la parte che li ha dedotti, per definizione, non appartengono alla lite, se non come fatti pacifici» (Cassazione, sentenza n. 10867 del 2005).
      Dunque, sarebbero oggetto di prova soltanto i fatti controversi, oggetto di specifica e documentata contestazione ad opera della controparte, mentre non sarebbero tali i cosiddetti «fatti pacifici o incontroversi».
      Secondo una corretta dottrina (Andrea Colli Vignarelli, in Bollettino tributario d'informazioni, n. 12, 2007, pagine 1013 e seguenti) tale principio sarebbe, oggi, già operativo nel processo tributario, in base al collegato principio dispositivo e all'esigenza di economia processuale, che rende inutile il dispiego di attività processuali, come l'assunzione di prove, laddove non strettamente necessarie, perché i fatti non sono stati specificamente contestati.
      Oltretutto, la stessa Corte di cassazione, con la citata sentenza n. 1540 del 2007, ha correttamente precisato che «l'onere di tempestiva contestazione è strumento neutro, direttamente connesso alla dinamica processuale, perciò di portata generale e prescindente dalle caratteristiche del processo in cui viene applicato».
      Appunto per questo, anche per evitare possibili dubbi futuri, è opportuno codificare il suddetto principio (articoli 18, comma 2, e 23, comma 3).
      L'affermazione del «principio di non contestazione» deriva peraltro da una lunga elaborazione dottrinaria, poi recepita dalla giurisprudenza di legittimità: dapprima nel rito del lavoro (per tutte, vedi Cassazione, Sezioni unite, sentenza n. 761 del 2002) e successivamente estesa al rito civile riformato (Cassazione, sentenze n. 394 del 2006 e n. 19160 del 2004).

Contumacia dell'ufficio resistente.

      In merito alla questione di illegittimità costituzionale dell'articolo 23 del decreto legislativo n. 546 del 1992, relativamente al fatto che tale norma non disponga la sanzione dell'inammissibilità della costituzione dell'ufficio resistente, che può costituirsi anche oltre il termine ordinatorio di sessanta giorni dalla notificazione del ricorso, la Corte costituzionale, con l'ordinanza n. 144 del 7 aprile 2006, ha dichiarato la questione stessa manifestamente infondata.
      La questione è manifestamente infondata, sotto il profilo della violazione dell'articolo 3 della Costituzione, essendo la diversa disciplina delle conseguenze derivanti dalla tardiva costituzione un evidente riflesso della ben diversa posizione processuale che, specie in un processo di tipo impugnatorio, come quello tributario, la legge coerentemente attribuisce al ricorrente e al resistente.
      Inoltre, sempre secondo la citata ordinanza, «anche quanto alla violazione dei principi del giusto processo, la questione è manifestamente infondata, potendo la tardiva costituzione del convenuto dar luogo, se così prevede la legge e nei limiti in cui lo prevede, a decadenze sia di tipo assertivo che probatorio, ma mai ad una irreversibile dichiarazione di contumacia, del tutto sconosciuta all'ordinamento».
      Inoltre, la Corte di cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 18962 del 28 settembre 2005, ha precisato che nel processo tributario attuale la costituzione in giudizio della parte resistente deve avvenire entro sessanta giorni della notifica del ricorso, altrimenti la parte decade dalla facoltà di proporre eccezioni processuali e di merito, che non siano rilevabili d'ufficio e di fare istanza per la chiamata di terzi in causa (articolo 23 del decreto legislativo n. 546 del 1992). Peraltro, come la stessa Corte ha già avuto modo di affermare (Cassazione, n. 7329 del 2003), qualora

 

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tali difese non siano concretamente esercitate, nessun'altra conseguenza sfavorevole può derivarne al resistente. Sicché deve escludersi qualsiasi sanzione di inammissibilità, anche perché non prevista dall'articolo 23 citato, a differenza di quanto previsto, per la costituzione del ricorrente, dall'articolo 22 del medesimo decreto legislativo, per il solo fatto della tardiva costituzione della parte resistente, cui deve riconoscersi il diritto, garantito dall'articolo 24 della Costituzione, sia di difendersi, negando i fatti costitutivi della pretesa attrice o contestando l'applicabilità delle norme di diritto invocate dal ricorrente (attività queste che il giudice svolge ex officio, dovendo comunque verificare la fondatezza in fatto e in diritto della domanda), sia di produrre documenti, ai sensi degli articoli 24 e 32 del decreto legislativo n. 546 del 1992, facoltà esercitatile anche in appello ai sensi dell'articolo 58, comma 2, del medesimo decreto legislativo.
      Secondo noi, invece, nonostante le autorevoli pronunce riportate, in sede di riforma bisogna attuare concretamente il disposto dell'articolo 111 della Costituzione e mettere tutte le parti processuali in condizioni di perfetta parità davanti a un giudice terzo e imparziale.
      Di conseguenza, se un termine è perentorio per il contribuente lo deve necessariamente essere anche per l'ufficio, che non può certo invocare una presunta superiorità pubblica.
      Appunto per questo, nella fase di costituzione delle parti, riteniamo opportuno, per tutte, considerare perentorio il relativo termine, con la conseguenza della relativa dichiarazione di contumacia dell'ufficio convenuto (articolo 23, comma 1).

Fase istruttoria.

      La fase istruttoria, secondo la prevalente dottrina, è quella più importante e delicata dell'intero processo tributario sia perché le parti costituite devono offrire ai giudici le prove delle loro istanze, richieste ed eccezioni, sia perché i giudici devono valutarle serenamente, e solo in casi eccezionali integrarle, per poter giungere ad una «verità processuale» il più possibile corretta e vicina alla «verità storica».
      Appunto per questo, durante tale fase, le parti non devono mai subire limitazioni di sorta nella produzione delle prove e i giudici non devono mortificare questa fase, come spesso accade oggi, nel risolverla in un'unica udienza pur di giungere, a tutti i costi, a una celere sentenza; la celerità del processo tributario, spesso tanto decantata nei discorsi ufficiali, non deve mai sacrificare l'equilibrio e la giustezza della sentenza, nel rispetto scrupoloso delle regole da parte di tutti.
      La posizione di terzietà del giudice e la natura dispositiva del processo tributario devono consentire ai giudici di ordinare l'esibizione e il deposito dei documenti non diversamente acquisibili al processo e non certo dei documenti che avrebbero potuto essere agevolmente acquisiti e ritualmente prodotti nei termini in giudizio (in tale senso, Corte di cassazione, sezione tributaria, con le sentenze n. 952 del 26 gennaio 2002, n. 462 del 17 gennaio 2002, n. 9514 dell'8 settembre 1999 e n. 9715 del 14 aprile 1995).
      Oltretutto, i poteri istruttori dei giudici tributari non devono avere la funzione di «rimediare a deficienze probatorie delle parti»; in ogni caso, qualora la situazione probatoria sia tale da non potersi pronunciare una sentenza ragionevolmente motivata senza acquisire d'ufficio alcune prove, ritenute determinanti, sarebbe scorretto il rifiuto da parte del giudice tributario di utilizzare i poteri di acquisizione della prova (Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 7129 del 9 maggio 2003).
      Inoltre, anche in sede di riforma, secondo noi, è opportuno confermare l'abrogazione del previgente comma 3 dell'articolo 7 del citato decreto legislativo n. 546 del 1992, per effetto dell'articolo 3-bis, comma 5, del decreto-legge n. 203 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2005, in vigore dal 3 dicembre 2005.
      La suddetta abrogazione ha, infatti, eliminato «ogni possibile limitazione al

 

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principio di legalità consacrato sul piano probatorio dall'articolo 2697 del codice civile, che impone la dimostrazione, da parte di chi esercita lo ius impositionis, dei presupposti di fatto del credito fiscale controverso (in debenza e/o ammontare) e, da parte del soggetto passivo, dell'esistenza di evenienze estintive e/o modificative dell'obbligazione tributaria dedotta in lite» (in tale senso, correttamente, Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 366 dell'11 gennaio 2006).
      Le parti costituite nel processo tributario devono tutte, sia private che pubbliche, depositare i documenti nei termini perentori, di cui agli articoli 24 e 32 del citato decreto legislativo n. 546 del 1992; oltretutto, la perentorietà dei termini già oggi è stata ripetutamente affermata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, sezione tributaria (sentenze n. 1771 del 30 gennaio 2004, n. 14624 del 10 novembre 2000 e n. 138 del 9 gennaio 2004).
      Nel giudizio di appello, inoltre, la produzione di nuovi documenti è ammessa, sempre nei termini perentori citati, e non occorre che la parte costituita dimostri di non averli potuti produrre nel precedente grado di giudizio, per causa ad essa non imputabile, in forza della norma «speciale» contenuta nell'articolo 58 del medesimo decreto legislativo n. 546 del 1992 (Cassazione, sezione tributaria, sentenze n. 20086 del 17 ottobre 2005, n. 19162 del 15 dicembre 2003 e n. 9604 del 21 luglio 2000), diversamente da quanto disposto nel processo civile (articolo 345, secondo comma, del codice di procedura civile).
      Nel progetto di riforma, secondo noi, bisogna tendere alla massima «processualizzazione» del processo tributario, perché solo in questo modo il cittadino contribuente, senza limitazioni di sorta, potrà compiutamente esercitare il proprio diritto di difesa, con la necessaria assistenza di un professionista processualmente competente (articolo 12) e con il rispetto di tutte le regole che solo un «vero» processo può dare, come cercheremo di dimostrare in seguito.
      L'esercizio del potere discrezionale attribuito al giudice tributario per l'acquisizione d'ufficio dei documenti necessari per la sentenza non può assolutamente sopperire al mancato assolvimento dell'onere della prova, il quale grava sull'Amministrazione finanziaria, in qualità di attrice in senso sostanziale, e perciò è legittimamente esercitabile soltanto per sopperire all'impossibilità di una parte di esibire documenti in possesso dell'altra parte.
      Così, per esempio, nel caso di compensi non dichiarati ai fini fiscali in cui vi siano prove documentali (appunti per memorie in scritture extracontabili, brogliacci, block-notes) utilizzate a sostegno dell'avviso di accertamento, esse devono sempre essere prodotte in giudizio dall'ufficio impositore (in tal senso, giustamente, Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 14091 del 18 giugno 2007).

Inutilizzabilità di atti e prove illegittimamente acquisiti.

      Occorre, innanzitutto, codificare l'importante principio della inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite (articolo 7, comma 2), in modo da sanare definitivamente sia l'attuale contrasto giurisprudenziale, sia, soprattutto, per ribadire il concetto che in uno Stato di diritto come il nostro tutti devono rispettare le regole, nessuno escluso, perché non deve esistere ufficio o ente «legibus solutus».
      Infatti, ultimamente, con l'importante sentenza n. 9568 del 23 aprile 2007, la Corte di cassazione, sezione tributaria, ha confermato, per esempio, che l'illegittimità del provvedimento di autorizzazione del procuratore della Repubblica importa la inutilizzabilità, a sostegno dell'accertamento tributario, delle prove riferite nel corso della perquisizione illegale atteso che:

          a) tale inutilizzabilità non abbisogna di un'espressa disposizione sanzionatoria, derivando dalla regola generale secondo cui l'assenza del presupposto di un procedimento amministrativo inficia tutti gli atti nei quali si articola;

 

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          b) il compito del giudice tributario di vagliare le prove offerte in causa è circoscritto a quelle di cui abbia preventivamente riscontrato la rituale assunzione;

          c) l'acquisizione di un documento con violazione di legge non può influire a vantaggio del detentore, che sia l'autore di tale violazione, o ne sia comunque direttamente o indirettamente responsabile.

      Questa corretta impostazione è orientata verso il conclusivo riconoscimento di un ruolo dominante e riequilibratore del giudice tributario, da intendere, secondo noi, quale arbitro autorevole e imparziale nel dialettico confronto tra il momento dell'autorità impositiva dello Stato e quello della libertà patrimoniale del contribuente, e al tempo stesso, però, quale fedele e rassicurante custode dei fondamentali valori della Carta costituzionale.
      Nella circostanza, è stato anche precisato che «a prescindere dalla verifica dell'esistenza o meno, nell'ordinamento tributario, di un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite, analogo a quello fissato per il processo penale dall'articolo 191 del vigente codice di procedura penale, l'inutilizzabilità in questione discende dal valore stesso dell'inviolabilità del domicilio solennemente consacrato nell'articolo 14 della Costituzione» (in tale senso, Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenze n. 19689 del 2004, n. 19690 del 2004, n. 1344 del 2002 e n. 15230 del 2001).
      In definitiva, con la citata sentenza n. 9568 del 2007, la Corte di cassazione non condivide il diverso orientamento espresso dalla Cassazione n. 8344 del 2001, aderendo, invece, al corretto orientamento prima esposto, per il quale, per esempio, l'inutilizzabilità degli elementi acquisiti in assenza o sulla base di illegittima preventiva autorizzazione della competente autorità discende dal valore stesso dell'inviolabilità del domicilio, consacrato nell'articolo 14 della Costituzione, e non giustifica mai deroghe o contorte giustificazioni (come, purtroppo, è avvenuto con altre sentenze della stessa Corte, in particolare n. 9565 del 24 aprile 2007, n. 7900 del 30 marzo 2007, n. 7208 del 2003, n. 15538 del 2002, n. 15914 del 2001, n. 5557 del 2000 e n. 1932 del 1999).
      Per sanare una volta per tutte il suddetto contrasto giurisprudenziale, persino presso la Corte di cassazione, nonché per mettere tutte le parti su un piano di perfetta parità, soprattutto per quanto riguarda il rispetto della legalità e dei princìpi costituzionali, in sede di urgente e moderna riforma del processo tributario, crediamo sia necessario codificare definitivamente il suddetto principio (articolo 7, comma 2), anche per dare dignità al processo tributario, che non deve assolutamente essere considerato un processo di «serie B», rispetto a quello ordinario (civile e penale) e amministrativo.

Documentazione.

      Un altro importante principio che bisogna introdurre, in sede di riforma, è quello relativo all'acquisizione della documentazione.

A) Perizie dell'Agenzia del territorio e altre analoghe.

      I giudici tributari, quando occorre acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità, possono disporre, anche d'ufficio e in grado di appello, una consulenza tecnica (CTU) da affidare, però, sempre a professionisti esterni all'Amministrazione finanziaria e previdenziale, per evitare palesi contrasti di interesse (articoli 7, comma 3, e 58, comma 2).
      Infatti, in più occasioni, la Corte di cassazione - sezione tributaria (da ultimo, sentenza n. 8890 del 13 aprile 2007) ha chiarito che «l'Amministrazione finanziaria si trova sullo stesso piano del contribuente, con la conseguenza che le stime dell'UTE da essa prodotte costituiscono delle semplici perizie di parte, cui può riconoscersi valore di atto pubblico soltanto per quel che concerne la provenienza,

 

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ma non per quel che riguarda il contenuto».
      Infatti, il giudice tributario, se vuole elevare a fondamento della propria decisione una stima dell'ufficio tecnico erariale (UTE), deve, necessariamente e compiutamente, spiegare le ragioni per le quali la ritenga corretta e convincente (Cassazione, sentenza n. 7935 del 2002).
      In definitiva, con la riforma proposta, i giudici tributari non dovranno mai nominare come CTU un dipendente dell'Amministrazione finanziaria o previdenziale per evitare un palese e ingiustificato conflitto di interessi a danno del cittadino-contribuente.

B) Richiesta di documentazione.

      La Corte costituzionale, con la sentenza n. 109 del 2007, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 7, comma 1, del citato decreto legislativo n. 546 del 1992, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione.
      In sostanza, l'immediato significato della statuizione della Corte, pienamente condivisibile, è quello di escludere in capo al giudice tributario ogni «supplenza» nell'esercizio dei poteri istruttori delle parti, ed in specie della parte pubblica, attraverso un incondizionato potere di iniziativa officiosa.
      Oltretutto, anche la Corte di cassazione, con l'importante sentenza n. 14091 del 18 giugno 2007, ha stabilito che l'esercizio del potere discrezionale, attribuito alle commissioni tributarie dal medesimo decreto legislativo n. 546 del 1992 per l'acquisizione d'ufficio dei documenti necessari per la decisione, non può sopperire al mancato assolvimento dell'onere della prova, il quale grava sempre sull'Amministrazione finanziaria in qualità di attrice in senso sostanziale, e perciò è legittimamente esercitabile soltanto per sopperire all'impossibilità di una parte di esibire documenti in possesso dell'altra parte.
      Oggi, con la menzionata abrogazione del comma 3 dell'articolo 7 dello stesso decreto legislativo n. 546 del 1992, si potrebbero creare problemi di coordinamento con il comma 1, che invece non è stato abrogato.
      Scrive magistralmente il professor Cesare Glendi che, oggi, è labile «il collegamento tra la terzietà del giudice nella prova e la natura asseritamente dispositiva dell'istruttoria del processo tributario, per di più circoscritta ai soli documenti, e sulla base di un tutt'altro scontato richiamo all'articolo 210 del codice di procedura civile L'intervento "sostitutivo" della Consulta, a questo punto, meriterebbe di essere quanto prima sostituito da un nuovo regime complessivo disciplinare, legislativamente determinato ed effettivamente rispondente alle peculiari esigenze del processo tributario» (vedi Il Sole 24 ore del 30 marzo 2007, pagina 33).
      Il professor Glendi ha perfettamente ragione; l'importante è che si abbia il coraggio e la decisione di intervenire subito per l'auspicata riforma.

C) Abrogazione dell'articolo 32, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600.

      L'articolo 32 citato, oggi, impedisce alla parte di esibire in giudizio documenti che, volontariamente, non sono stati esibiti o consegnati durante le indagini fiscali.
      Intervenuta sul punto, la Corte costituzionale, con l'ordinanza n. 181 del 7 giugno 2007, ha preferito liberarsi della questione senza affrontarla «funditus», eccependo formalmente il mancato riferimento dell'ordinanza di rimessione ai corretti parametri costituzionali e dichiarandola manifestamente infondata.
      In sostanza, secondo i giudici costituzionali «tale prospettazione della questione è frutto di una evidente confusione fra il profilo sostanziale e quello processuale della tutela del contribuente, perché mentre il principio della capacità contributiva (articolo 53) ha natura sostanziale, in quanto attiene al presupposto del tributo, le preclusioni relative all'allegazione in giudizio di documenti o dati hanno invece natura processuale, in quanto attengono

 

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alla tutela giurisdizionale dei diritti (articolo 24 della Costituzione)».
      La suddetta ordinanza, secondo noi non condivisibile, è stata giustamente criticata dal professor Enrico De Mita con un interessante articolo pubblicato in Il Sole 24 ore del 24 giugno 2007.
      In ogni caso, per evitare ulteriori polemiche e per consentire alla parte di potersi difendere efficacemente, senza preclusioni dettate da comportamenti tenuti nella fase precontenziosa, è opportuno, secondo noi, abrogare definitivamente la citata disposizione (articolo 7, comma 6).
      In tal modo, non sarebbero violati gli articoli 3 e 24 della Costituzione (per un precedente, in tal senso, si rinvia alla sentenza n. 64/41/06 della commissione tributaria regionale della Lombardia, citata dal professor De Mita nell'articolo indicato).
      Il processo tributario deve avvicinarsi al principio di libertà di prova e deve rinnegare, invece, l'attuale sistema della prova legale, cioè di un valore probatorio predeterminato o escluso già a livello legislativo, per consentire al contribuente e al suo difensore la possibilità di lottare ad «armi pari» con il fisco.

D) Ammissibilità del giuramento e della testimonianza.

      Attualmente, nel processo tributario, non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale.
      Nonostante varie perplessità, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 18 del 21 gennaio 2000, ha ritenuto legittimo tale sistema, perché nel processo tributario sono sufficienti mezzi e trattazione scritti, salvo la possibilità di introdurre semplici atti notori.
      Su tale linea interpretativa si è, poi, costantemente inserita la Corte di cassazione, sezione tributaria, che, nell'ultima sentenza n. 11221 del 16 maggio 2007, ha testualmente confermato e stabilito che «nel processo tributario come è ammessa la possibilità che le dichiarazioni rese da terzi agli organi dell'Amministrazione finanziaria trovino ingresso, a carico del contribuente, fermo il divieto di ammissione della "prova testimoniale", posto dall'articolo 7 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, con il valore probatorio proprio gli elementi indicatori, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione (Corte costituzionale, sentenza n. 18 del 2000), va del pari riconosciuto necessariamente anche al contribuente lo stesso potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi, in sede extraprocessuale, beninteso con il medesimo valore probatorio, dando così concreta attuazione ai princìpi del giusto processo come riformulati nel nuovo testo dell'articolo 111 della Costituzione, per garantire il principio della parità delle armi processuali, nonché l'effettività del diritto alla difesa (nella specie, mentre si è riconosciuto che correttamente la Commissione tributaria aveva preso in considerazione l'atto notorio, contenente le dichiarazioni rese dal genitore del contribuente, si è ritenuto, invece, errato aver assegnato a tali dichiarazioni il valore di prova vera e propria, basando la decisione solo su di esse, Cassazione, sentenza n. 4269 del 25 marzo 2002)».
      Oggi, invece, secondo noi, in occasione di una più generale e meditata riforma in sede legislativa, è necessario consentire, anche nel processo tributario (articolo 7, comma 5), sia il giuramento (decisorio, estimatorio e suppletorio), ai sensi degli articoli 233 e 243 del codice di procedura civile, sia la prova per testimoni, ai sensi degli articoli 244-257 del medesimo codice di procedura civile, da ammettere sempre dal collegio giudicante (si veda il progetto di legge dell'onorevole Frattini, atto Camera n. 4095 del 1o agosto 1997).
      Quanto esposto, proprio alla luce di una recente sentenza della Corte europea dei diritti umani (la n. 73053/2001 del 23 novembre 2006, causa Jussila contro Finlandia, in GT-Rivista di giurisprudenza tributaria, n. 5, 2007, pagine 388 e seguenti, con l'interessante e condivisibile commento di Alberto Marcheselli).

 

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      In sostanza, secondo la CEDU, «i princìpi sanciti dall'articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (secondo cui ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia sulla fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta) non sono applicabili al processo tributario, a meno che non sia oggetto del contenzioso anche la sanzione amministrativa tributaria. In questo caso deve essere ammesso il contraddittorio orale anche in tale tipo di procedimento».
      Secondo la CEDU, se nel processo tributario è la «normalità» decidere in base a mezzi e a trattazione scritti «non può escludersi che le particolarità del caso concreto rendano necessario il ricorso a mezzi orali. L'esclusione, in via assoluta, di tali mezzi può determinare, in quei casi, l'impossibilità di accertamento effettivo della realtà, impedire il raggiungimento dello scopo del processo e determinare la lesione del diritto di piena difesa della parte interessata».
      Scrive, correttamente, a tale proposito Marcheselli: «se tuttavia si trasportano tali considerazioni nel diritto italiano, si riproduce un potenziale cortocircuito. Il diritto processuale tributario italiano prevede, in effetti, secondo uno schema simile a quello tracciato dalla CEDU, la "eventualità" di una trattazione orale. Anzi, tale trattazione è doverosa, se richiesta da almeno una delle parti. Il sistema si presta ad essere interpretato però nel senso che, anche in caso di discussione orale, tuttavia, non sono consentiti né quando sono in gioco tributi, né quando sono in gioco sanzioni amministrative, mezzi di difesa orali. In questa linea, non sarebbe lasciato alcuno spazio di valutazione discrezionale al giudice tributario, in ordine alla rilevanza della prova.
      L'ordinamento tributario italiano, insomma, così come interpretato, sembra al di sotto dello standard fissato dalla sentenza in commento e, se la giurisprudenza della Corte si allineerà a questo precedente, la condanna di Strasburgo potrebbe allora essere difficilmente evitabile».
      Non c'è da aggiungere nulla a quanto correttamente scritto dall'autore citato.
      Diversamente, non sono assolutamente d'accordo con il professor Glendi che, seppur auspicando una più favorevole e meditata riforma in sede legislativa del processo tributario, ha, invece, criticato la suddetta interpretazione («Postilla» di Cesare Glendi, in GT-Rivista di giurisprudenza tributaria, n. 5, 2007, pagine 393-394).
      Crediamo sia importante chiarire, una volta per tutte, che le cosiddette «fondamentali esigenze di celerità e di essenzialità» nel processo tributario non devono assolutamente ledere o comprimere il diritto alla difesa delle parti, perché, oggi, i semplici atti notori non hanno, come abbiamo visto, quella stessa efficacia e determinabilità delle prove per testi e per giuramento, salvo i limiti penali della falsa testimonianza (Cassazione, sentenze n. 3674 del 6 giugno 1981 e n. 622 del 22 gennaio 1994).
      Oggi, infatti, assistiamo all'assurdo che, per esempio, la Guardia di finanza raccoglie «vere» testimonianze di terzi e le consacra in processi verbali di constatazione che, in quanto prove «documentali», sono ammesse dai giudici tributari, mentre il contribuente, in sede contenziosa, per poter smontare quanto sopra, è autorizzato a presentare «semplici atti notori», di limitato, e alcune volte inconsistente, valore probatorio, come abbiamo scritto precedentemente (vedi anche Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 21233 del 29 settembre 2006).
      Invece, in questo momento storico in cui gli organi impositori possono utilizzare invasivi mezzi istruttori, soprattutto in sede di controlli bancari e finanziari, è necessario e urgente consentire alla parte la possibilità di potersi difendere in modo serio, efficace e documentato, mettendola sullo stesso piano degli uffici, ai sensi dei più volte citati articoli 24 e 111 della Costituzione.
 

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      A titolo esemplificativo, non certo esaustivo, ricordiamo che la prova per testi o per giuramento può essere necessaria, se non indispensabile, nei seguenti casi:

          1) in tema di applicazione delle sanzioni amministrative, soprattutto per determinare e valutare il grado di imputabilità o di colpevolezza (decreto legislativo n. 472 del 1997), come peraltro auspicato dalla citata sentenza n. 73053 del 2001 della CEDU; infatti, in tema di violazione delle norme tributarie, il decreto legislativo n. 472 del 1997 ha trasformato in sanzioni pecuniarie le soprattasse previste dalla normativa previgente. Tale trasformazione richiede il dolo o, quantomeno, la colpa dell'agente. Il giudice tributario, qualora ritenga incolpevole il mancato versamento dell'imposta, deve indicare nelle sue motivazioni l'insussistenza dei presupposti per l'applicazione della sanzione (Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 1328 del 22 gennaio 2007);

          2) in tema di redditometro (articolo 38, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973) per dimostrare la non disponibilità di determinati beni oppure (Cassazione, sentenze n. 2656 del 2007, n. 12294 del 2007 e n. 19403 del 2005), tenuto conto della recente circolare n. 49/E del 9 agosto 2007 dell'Agenzia delle entrate, con la possibilità di estendere le indagini anche alla cosiddetta «famiglia fiscale», dimostrare che anche eventuali unioni di fatto o altri gradi di parentela potrebbero neutralizzare le presunzioni del redditometro (si rinvia agli articoli sul tema, pubblicati in Il Sole 24 ore del 19 agosto 2007 e Italia Oggi del 18 agosto 2007, pagina 29, rispettivamente ad opera di Angelo Busani, Antonio Criscione e Andrea Borgi) o per dimostrare di aver ricevuto la provvista di denaro da altri, come precisato dall'Agenzia delle entrate con la circolare n. 49/E del 2007;

          3) in tema di studi di settore, per dimostrare gli effetti deleteri della concorrenza e delle crisi di settore (Cassazione, sentenza n. 17229 del 28 luglio 2006);

          4) in tema di residenze fiscali estere fittizie (con l'eclatante esempio estivo della vicenda dello sportivo Valentino Rossi), per dimostrare qual è effettivamente il centro principale dei propri affari e interessi ovvero la dimora abituale (articolo 43 del codice civile e articolo 2 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986); ciò, soprattutto, alla luce delle sentenze della Corte di cassazione n. 2936 del 5 maggio 1980, n. 3586 del 26 ottobre 1968 e n. 435 del 12 febbraio 1973, in base alle quali viene chiarito che la locuzione affari ed interessi «deve intendersi in senso ampio comprensivo non solo di rapporti di natura patrimoniale ed economica ma anche morali, sociali e familiari» (articoli di Francesco Serao, in Italia Oggi del 18 agosto 2007, pagina 32);

          5) in tema di crediti di imposta sugli investimenti, la non applicazione della norma antielusiva quando la ritardata entrata in funzione dei beni agevolati non è attribuibile alle decisioni del contribuente ma ad altre circostanze a quest'ultimo non imputabili (circolari dell'Agenzia delle entrate n. 62/E del 2004 e n. 53/E del 2005; risoluzione n. 101/E del 30 luglio 2004), soprattutto alla luce dell'articolo 10 dello Statuto dei diritti del contribuente;

          6) infine, riconoscimento dei costi in caso di omessa o irregolare tenuta delle scritture contabili; infatti, la Corte di cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 10964 del 14 maggio 2007, ha precisato che, anche in presenza di irregolari registrazioni, il contribuente ha l'onere di provare i costi sopportati, seppure con mezzi diversi dalle scritture contabili, purché costituenti elementi certi e precisi.

      E gli esempi potrebbero continuare a lungo, senza possibilità di compiutezza. Per concludere, riteniamo opportuno consentire, anche nel processo tributario, i suddetti mezzi di prova per non pregiudicare seriamente il diritto di difesa del cittadino-contribuente (e del suo difensore, il quale, logicamente, deve essere preparato e competente in materia processuale).

 

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      Infatti, è importante che il legislatore valorizzi le specifiche professionalità, senza per questo creare inutili e dannose polemiche tra gli operatori.
      In campo fiscale, per esempio, esistono già delle posizioni esclusive, come per l'apposizione del cosiddetto «visto pesante» (decreto legislativo n. 241 del 1997), che può essere rilasciato ad imprese in contabilità ordinaria (per obbligo o per opzione) soltanto da dottori commercialisti, ragionieri e consulenti del lavoro che esercitano la professione da almeno cinque anni, iscritti nell'elenco dei revisori contabili.
      In questo caso, l'esclusione degli avvocati (persino dei tributaristi) è giustificata dalla professionalità contabile delle altre categorie e, di conseguenza, lo stesso criterio deve essere seguito nel processo tributario, anche per evitare possibili eccezioni di incostituzionalità.

Sentenze dei giudici tributari.

      Anche la relazione e la motivazione delle sentenze dei giudici tributari devono trovare ingresso nella generale riforma del processo tributario.
      Infatti, per riprendere un passo dell'interessante articolo dell'avvocato Valdo Azzoni (in Bollettino tributario d'informazioni, n. 12, 2007, pagine 1018-1021), che a sua volta commenta una lezione sul tema tenuta da Raffaele Ceniccola, componente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, la congrua motivazione della sentenza deve rispondere a una «triplicità» di urgenze se è vero che essa:

          1) racchiude l'essenza più profonda del sentire del giudice, che all'esterno va avvertita come frutto meditato di un confronto onesto e non certo come diktat arbitrario (motivazione come prius);

          2) si traduce in un riscontro della decisione, ossia della risposta istituzionale ad una domanda di giustizia non circoscritta alle parti in lite verso le quali peraltro unicamente fa stato, ma estesa al più largo pubblico di tutti i potenziali interessati sotto forma di insegnamento e di modello (il cosiddetto «recedente») da confutare o, al contrario, da sostenere, arricchire o propalare;

          3) fornisce materia prima all'eventuale, successivo scrutinio avviato con l'impugnazione (tanto meno incoraggiata, quest'ultima, quanto più il primo esito si afferma solido e blindato), per cui deve assolvere al compito di analitico chiarimento dei concetti espressi sinteticamente nella formula del dispositivo (motivazione come posterius).

      Infine, per dare la possibilità alle difese di potersi esprimere senza strozzature, abbiamo previsto il limite massimo di venti fascicoli da portare in udienza, comprese le sospensive (come opportunamente deliberato, per esempio, dal presidente della commissione tributaria provinciale di Lecce, con provvedimento n. 144 del 18 maggio 2001).

A) Motivazione della sentenza.

      Sulla necessità di una congrua motivazione delle sentenze dei giudici tributari si è più volte pronunciata la Corte di cassazione, che ha cristallizzato i seguenti princìpi:

          1) la mancata esposizione dello svolgimento del processo e dei fatti rilevanti della causa e l'estrema concisione della motivazione in diritto determinano la nullità della sentenza allorquando rendono impossibile l'individuazione del thema decidendum e delle ragioni che stanno a fondamento del dispositivo (sentenza n. 1944 del 12 febbraio 2001);

          2) la sentenza tributaria con una motivazione «apparente» è da ritenersi affetta da nullità (sentenza n. 741 del 28 marzo 2001);

          3) non adempie il dovere di motivazione il giudice del gravame che si richiami per relationem alla sentenza impugnata, di cui condivida le argomentazioni, senza dare conto di aver valutato criticamente

 

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sia il provvedimento censurato sia le censure proposte (sentenza n. 3547 del 12 marzo 2002).

      Sulla particolare problematica della motivazione per relationem, però, c'è da rilevare che, ultimamente, la Corte di cassazione, sezione tributaria, con l'ordinanza n. 10327 del 7 maggio 2007, ha rimesso gli atti al primo presidente, perché valuti l'opportunità di assegnare la questione alle Sezioni unite per comporre un evidente contrasto giurisprudenziale.
      Infatti, in alcuni casi, la Suprema Corte ha ritenuto che «quando il medesimo organo giudicante si trovi a pronunciare contestualmente più decisioni in cui siano affrontate questioni legate fra loro con un vincolo di consequenzialità necessaria, è consentito che la motivazione di una decisione consista in un rinvio alle argomentazioni svolte nell'altra; in tal caso, non si ha tanto la motivazione di una sentenza per relationem, cioè mediante rinvio ad argomenti contenuti in altra sentenza, ma piuttosto la constatazione che la decisione di una delle controversie, in un certo senso, comporta necessariamente l'identica conclusione per l'altra» (si rinvia a Cassazione, sentenze n. 10410 del 1998, n. 1634 del 2003 e, con qualche distinguo, n. 20095 del 2005).
      Invece, in altre decisioni sulla stessa problematica la Corte di cassazione ha affermato che nell'ipotesi in cui il giudizio relativo al reddito di partecipazione di un socio sia stato separatamente instaurato e trattato rispetto al giudizio attinente all'accertamento del reddito della società, l'indipendenza dei due processi rende necessario che la sentenza pronunciata nel giudizio concernente il reddito del socio, pur se legata da un nesso di consequenzialità a quella inerente al ricorso proposto dalla società, contenga tutti gli elementi essenziali in ordine allo svolgimento del processo e ai motivi, in fatto e in diritto, della decisione senza che il giudice possa limitarsi ad un mero rinvio alla motivazione della sentenza relativa alla società (si rinvia a Cassazione, sentenze n. 11677 del 2002 e n. 19696 del 2006).
      A questo punto, in sede di riforma, in attesa che le Sezioni unite si pronuncino e per dare certezze alle parti, è opportuno, secondo noi, precisare che la sentenza deve sempre contenere, a pena di nullità «la succinta esposizione dei motivi in diritto e in fatto, senza che il giudice possa limitarsi ad un mero rinvio alla motivazione di altra sentenza, anche se connessa» (articolo 36, comma 5, lettera d)).

B) Sentenze parziali.

      In sede di riforma, secondo noi, è necessario consentire ai giudici tributari anche l'emissione di sentenze non definitive o limitate solo ad alcune domande, con possibilità, di conseguenza, di appello parziale (articoli 35, comma 4, e 52), per affrontare, soprattutto, una celere definizione, seppur parziale, di una controversia, almeno sui punti in cui o le parti sono d'accordo o gli stessi giudici rilevano la possibilità di un immediato giudizio, senza ulteriore istruttoria.
      Infatti, può accadere, per esempio, che in sede di ricorso avverso un avviso di accertamento, mentre sulla determinazione dei ricavi con una media aritmetica ponderata è necessario disporre una CTU (specie se anche le parti costituite hanno depositato corpose perizie di parte), di converso, sul recupero di determinati costi, perché non documentati, la parte deposita la relativa documentazione e, di conseguenza, i giudici possono decidere subito, accogliendo parzialmente il ricorso e impedendo all'ufficio gravose iscrizioni a ruolo, soprattutto se in precedenza non sia stata concessa la sospensiva (di cui si dirà oltre).
      In tale ipotesi, non si capisce perché non si possa decidere subito, anche parzialmente, per evitare ulteriori, gravosi danni economici al ricorrente.

C) Sentenze pronunciate in base ad equità.

      Attualmente, i giudici tributari non possono decidere in base ad equità, come

 

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stabilito dalla Corte di cassazione, sezione tributaria, con le sentenze n. 20602 del 24 ottobre 2005 e n. 613 del 13 gennaio 2006.
      Una volta consentita, però, in sede di riforma, la possibilità di impugnare il diniego, espresso o tacito, dell'istanza di autotutela (come commentato in precedenza, per gli articoli 19, comma 5, 35, comma 5, e 50, comma 2), secondo noi è opportuno ammettere anche il giudizio di equità, con limiti per l'impugnazione, soprattutto per dare la possibilità ai giudici tributari di concretizzare il presupposto impositivo dell'articolo 53 della Costituzione (tassazione in base all'effettiva capacità contributiva), indipendentemente da inutili formalismi, spesso presunti nel settore tributario e per lo più, oggi, previsti a danno dei cittadini-contribuenti (vedi per esempio Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 22018 del 13 ottobre 2006).

D) Spese del giudizio.

      In sede di riforma, per la liquidazione delle spese del giudizio, si deve tenere conto, secondo noi, dei seguenti princìpi (articolo 15):

          1) la sentenza sul punto deve essere congruamente e specificamente motivata, anche alla luce delle modifiche introdotte al codice di procedura civile, a far data dal 1o marzo 2006;

          2) è applicabile l'articolo 96 del codice di procedura civile sulla responsabilità aggravata per lite temeraria; il carattere temerario della lite, che costituisce il presupposto della condanna al risarcimento dei danni, va ravvisato nella coscienza dell'infondatezza della domanda e delle tesi sostenute, ovvero nel difetto della normale diligenza per l'acquisizione di tale consapevolezza, non già nella mera opinabilità del diritto fatto valere (in tal senso, correttamente, Cassazione, sentenze n. 18824 del 2006, n. 9060 del 2003, n. 9579 del 2000 e n. 7101 del 1994);

          3) le spese del giudizio liquidate con le sentenze devono essere immediatamente esecutive, salvo le sospensive di cui si dirà oltre. Infatti, se l'ufficio può iscrivere a titolo provvisorio in corso di causa non si vede perché la stessa sentenza non debba essere immediatamente esecutiva anche per le spese del giudizio, soprattutto per evitare le liti temerarie di cui sopra;

          4) nella liquidazione delle spese a favore dell'ufficio od ente (articolo 15, comma 3), la tariffa, seppur ridotta del 30 per cento, deve comprendere, oltre agli onorari, anche i diritti di procuratore, intesi come il compenso analitico per l'attività eminentemente formale che il professionista è legittimato a svolgere nel processo, nonché un rimborso forfetario delle spese generali, in ragione del 10 per cento sull'importo degli onorari e dei diritti (in tal senso, ultimamente, Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 8622 del 6 aprile 2007);

          5) è applicabile l'istituto della cosiddetta «soccombenza virtuale» (articolo 46, comma 3), soprattutto dopo l'intervento della Corte costituzionale, con la nota e importante sentenza n. 274 del 12 luglio 2005, più volte citata dalla Corte di cassazione (da ultimo, sentenza n. 21380 del 4 ottobre 2006);

          6) infine, sul punto, è opportuno ribadire il concetto che i giudici tributari dovrebbero utilizzare la compensazione delle spese solo in casi eccezionali, perché la regola dovrebbe essere quella di condannare sempre la parte soccombente, anche per evitare contenziosi inutili e temerari, portati avanti con l'unico scopo di scoraggiare la controparte.

E) Principio dell'immutabilità del giudice nel processo tributario.

      Il principio dell'immutabilità del giudice ha ingresso anche nel processo tributario (articolo 35, comma 3), come peraltro più volte confermato dalla Corte di cassazione, sezione tributaria (sentenze

 

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n. 11269 del 27 agosto 2001 e n. 15374 del 5 dicembre 2001).
      Infatti, la sentenza di un giudice collegiale è nulla quando dal verbale d'udienza risulta la non coincidenza dei giudici che hanno partecipato alla discussione con quelli che hanno preso parte alla deliberazione (si veda anche Cassazione civile, sentenze n. 1426 del 1982, n. 3365 del 1991, n. 11853 del 1991, n. 3268 e n. 6494 del 1995), salvo, logicamente, i casi, da documentare, di trasferimento, dimissioni, malattia o morte.
      Ovviamente, la prova della irregolare composizione del collegio giudicante compete sempre alla parte che deduce tale circostanza (Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 5120 del 9 marzo 2005).

F) Efficacia del giudicato esterno.

      In sede di riforma, il principio dell'effetto vincolante del giudicato esterno (articolo 36, comma 3) riprende quanto stabilito dalla Corte di cassazione, sezioni unite, con l'importante sentenza n. 13916 del 4 maggio 2006.
      In sostanza, la Corte, con la suddetta sentenza, ha sanato un contrasto giurisprudenziale, partendo dal presupposto che il processo tributario non è un «giudizio sull'atto» (da annullare) ma ha, invece, ad oggetto la tutela di un diritto soggettivo del contribuente; un giudizio, quindi, che inevitabilmente si estende al merito e, di conseguenza, anche all'accertamento del sottostante rapporto tributario (cosiddetta «impugnazione-merito»).
      Appunto per questo il giudice tributario è vincolato al giudicato esterno quando le statuizioni della sentenza passata in giudicato siano relative a qualificazioni giuridiche o ad altri eventuali elementi preliminari rispetto ai quali possa dirsi sussistere un interesse protetto avente il carattere della durevolezza nel tempo, anche se riguardano tributi e anni diversi.
      In sede di riforma, secondo noi, è opportuno codificare il suddetto principio (articolo 36, comma 3) non solo per dare riferimenti precisi ai giudici ma, soprattutto, per evitare ripensamenti giurisprudenziali sul tema (come ribadito con la sentenza n. 14012 del 7 maggio 2007 della stessa Corte di cassazione; contra Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 11226 del 2007).
      Qualora, in sede di processo tributario, sia accertata con sentenza definitiva l'illegittimità dell'attività investigativa svolta dalla Guardia di finanza, tale giudicato spiega i suoi effetti nelle controversie insorte tra le stesse parti in relazione ad accertamenti riferiti a periodi di imposta diversi, scaturiti dalla medesima indagine (Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 22036 del 13 ottobre 2006).
      Il giudicato esterno può essere rilevato d'ufficio e anche per la prima volta nel giudizio di legittimità, purché la parte che lo invoca produca copia autentica della sentenza, recante attestazione del passaggio in giudicato, anche in relazione a un altro anno di imposta (Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 24067 del 10 novembre 2006).

G) Rapporti con il diritto comunitario.

      In un interessante articolo di Alessandro Sacrestano, apparso in Il Sole 24 ore. Norme e tributi del 20 agosto 2007, a pagina 30 si cita l'importante sentenza della Corte di cassazione, sezione tributaria, n. 16130 del 20 luglio 2007, dove è stabilito il seguente principio: «trattandosi di verificare la conformità del regime ordinario di tassazione (secondo quanto sostenuto dall'Amministrazione finanziaria) al diritto comunitario, in forza del principio di effettività contenuto nell'articolo 10 del Trattato UE, l'indagine deve essere compiuta d'ufficio, anche a prescindere da specifiche istanze di parte, con conseguente inoperatività di preclusioni processuali, quali quelle derivanti dalla caratteristica di processo ad oggetto chiuso, come il giudizio di Cassazione. Tale regola, enunciata da una costante giurisprudenza della Corte di Giustizia della Comunità europea a partire dalla sentenza 16 gennaio 1974 in causa 166/73,

 

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è stata recepita dalla giurisprudenza di questa Corte nella sentenza delle Sezioni Unite n. 26948/06.
      Pertanto, la verifica di conformità del diritto nazionale con quello comunitario deve essere svolta anche d'ufficio, e può comportare anche i nuovi accertamenti di fatto, così come si verifica nell'ipotesi di jus superveniens.
      Pertanto, ove la questione sia posta nel giudizio di legittimità, ove la Cassazione non disponga del necessario materiale fattuale, la stessa deve cassare la sentenza impugnata con rinvio al giudice di merito».
      È bene che i giudici tributari applichino il suddetto principio quando si tratta di decidere sulla conformità o meno del diritto nazionale a quello comunitario, argomento assai interessante e dibattuto specie nel diritto tributario.
      Inoltre, la Corte di giustizia delle Comunità europee, con la sentenza del 19 giugno 1990 (in causa C-213/89) ha stabilito che il diritto comunitario deve essere interpretato nel senso che la giurisdizione nazionale che, investita di una lite concernente la normativa comunitaria, ritiene che l'unico ostacolo che si oppone a che questa disponga delle misure provvisorie è una regola di diritto nazionale, deve scartare l'applicazione di questa norma.
      Poiché occorre assicurare piena efficacia al diritto comunitario, il giudice è tenuto a disapplicare la norma di diritto nazionale, che solo osti alla concessione di provvedimenti provvisori.
      Scrive opportunamente il professor Francesco Tesauro che «ciò significa che le Commissioni tributarie ricorrendone i presupposti, possono sempre sospendere l'atto impugnato per tutelare un diritto comunitario, e possono farlo anche in grado di appello» (editoriale pubblicato in GT-Rivista di giurisprudenza tributaria, n. 6, 2007, pagine 465-467).
      Infatti, anche in questa sede occorre ribadire il concetto che nel processo tributario, alla riconosciuta parziale fondatezza dei rilievi del contribuente, non deve seguire la pronuncia di illegittimità e, quindi, di annullamento dell'atto impugnato, ma un giudizio di merito sull'ammontare delle imposte dovute dal contribuente in luogo di quelle accertate dall'ufficio, richiedendosi la pronuncia costitutiva di annullamento solo in casi di vizi formali dell'atto impugnato o di altri atti su cui esso si fondi (ultimamente, Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 17121 del 3 agosto 2007).

H) Litisconsorzio necessario.

      Ogni volta che per effetto della norma tributaria o per l'azione esercitata dall'Agenzia delle entrate l'atto impositivo debba essere o sia unitario, coinvolgendo nell'unicità della fattispecie costitutiva dell'obbligazione una pluralità di soggetti, e il ricorso proposto da uno o più degli obbligati abbia ad oggetto non la singola posizione debitoria del ricorrente ma la posizione inscindibilmente comune a tutti i debitori rispetto all'obbligazione dedotta nell'atto autoritativo impugnato, ricorre sempre un'ipotesi di litisconsorzio necessario (articolo 62, comma 1, lettera b)).
      Qualora si verifichi una violazione della norma sul litisconsorzio necessario, l'intero processo resta viziato, cosicché in sede di legittimità si impone l'annullamento, anche d'ufficio, delle sentenze emesse in primo grado e in secondo grado e il conseguente rinvio della causa al giudice di prime cure, a norma dell'articolo 383, ultimo comma, del codice di procedura civile (in tale senso, Cassazione, Sezioni unite, sentenza n. 1052 del 18 gennaio 2007). Si supera, in tal modo, il principio secondo il quale la solidarietà tributaria non determina il litisconsorzio necessario.
      Sostituto e sostituito sono entrambi legittimati ad agire in giudizio per il rimborso delle ritenute fiscali, con la necessaria partecipazione dell'Amministrazione finanziaria (Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 14911 del 28 giugno 2007).

 

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I) Statuto dei diritti del contribuente.

      Ultimamente, per segnalare il difficoltoso andamento della macchina amministrativa nel settore dei tributi è scesa in campo la stessa Corte dei conti con la corretta e impietosa relazione «Rapporti Fisco - contribuenti; stato di attuazione dello Statuto del contribuente e dell'obiettivo di ottimizzazione del servizio per i contribuenti-utenti» del 25 maggio 2007.
      In tale relazione sono messe in risalto la complessità della legislazione tributaria e le ripetute inosservanze dello Statuto dei diritti del contribuente (legge 27 luglio 2000, n. 212).
      Correttamente, scrive Ubaldo Perrucci, in Bollettino tributario d'informazioni, n. 13, 2007, pagina 1113, «in particolare, le deroghe allo Statuto dei diritti del contribuente furono introdotte dal Governo Amato con il decreto-legge 30 settembre 2000, n. 268 (convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2000, n. 354) e con la stessa legge 23 dicembre 2000, n. 388 (finanziaria 2001); poi riproposte dal Governo Berlusconi, con le finanziarie 2003, 2004, 2005; ma ancora di recente reiterate in materia di crediti di imposta e d'acconto dal decreto-legge n. 223/2006 (decreto Visco-Bersani).
      Ma soprattutto i giudici contabili censurano il sempre più frequente ricorso a leggi fiscali retroattive e, in genere, l'attitudine di mutare le regole in corso di esercizio per giustificare esigenze di gettito, con un continuo proliferare di variazioni e di interventi».
      A tal proposito, occorre rilevare che la Corte di cassazione, sezione tributaria, con le importanti sentenze n. 17576 del 10 dicembre 2002, n. 7080 del 14 aprile 2004 e n. 21513 del 6 ottobre 2006, ha chiarito e precisato che il tratto comune dei princìpi statutari è costituito «dalla superiorità assiologia dei princìpi espressi o desumibili dalle disposizioni dello Statuto e, quindi, dalla loro funzione di orientamento ermeneutico, vincolante per l'interprete: in altri termini, il dubbio interpretativo o applicativo sul significato e sulla portata di qualsiasi disposizione tributaria che attenga ad ambiti materiali disciplinati dalla legge n. 212 del 2000 deve essere risolto dall'interprete nel senso più conforme ai princìpi statutari».
      Secondo noi, in sede di riforma, è opportuno codificare il suddetto principio (articolo 36, comma 9) per dare una guida precisa ai giudici tributari.

L) Il giudice tributario non è vincolato da quanto stabilito in sede penale.

      Ai sensi dell'articolo 654 del codice di procedura penale, che aveva portata modificativa dell'articolo 12 del decreto-legge n. 429 del 1982, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 516 del 1982, poi espressamente abrogato dall'articolo 25 del decreto legislativo n. 74 del 2000, l'efficacia vincolante del giudicato penale non opera nel processo tributario (articolo 36, comma 2), poiché in questo possono valere anche presunzioni inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna (per esempio, accertamento basato su presunzioni non qualificate, ai sensi dell'articolo 39, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973).
      A causa del mutato quadro normativo, quindi, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può più attribuirsi nel separato giudizio tributario alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati tributari, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l'Amministrazione finanziaria ha promosso l'accertamento nei confronti del contribuente.
      Pertanto, il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l'esistenza di una sentenza definitiva in materia di reati tributari, estendendone automaticamente gli effetti con riguardo all'azione accertatrice del singolo ufficio tributario ma, nell'esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti, deve, in ogni caso, verificarne la rilevanza nell'ambito specifico in cui esso è destinato ad operare (in tal senso, Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 14953 del 28 giugno 2006).

 

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Sospensione del processo.

      Il processo deve essere sospeso, tra l'altro, quando si verifica l'ipotesi di cui all'articolo 295 del codice di procedura civile (articolo 39, comma 1, lettera a)), il quale testualmente recita: «Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisone della causa».
      Oltretutto, la Cassazione ha più volte ritenuto applicabile, silentio legis, nel processo tributario, il citato articolo 295 del codice di procedura civile (da ultimo, Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 12997 del 4 giugno 2007; si veda anche sentenza n. 4509 del 10 aprile 2000).
      In tema di sospensione necessaria, l'articolo 295 del codice di procedura civile, nel prevedere la sospensione del processo quando la decisione dipenda dalla definizione di un'altra causa, fa riferimento a un rapporto di effettiva consequenzialità tra due emanande statuizioni e, quindi, non a un mero collegamento fra esse, bensì a una situazione in cui uno dei due giudizi, oltre ad essere in concreto pendente e a coinvolgere le stesse parti, investa una questione di carattere pregiudiziale, cioè un indispensabile antecedente logico-giuridico, la soluzione del quale pregiudichi, in tutto o in parte, l'esito della causa da sospendere, dovendosi ritenere che, sotto questo profilo, la nozione di dipendenza equivalga a quella di alternatività ravvisabile ove il possibile esito di uno dei due giudizi sia intrinsecamente incompatibile con l'accertamento richiesto nell'altro (in tal senso, Cassazione civile, sentenza n. 8819 del 28 giugno 2001).
      Inoltre, nell'ipotesi di continenza tra cause pendenti in grado diverso, deve farsi ricorso all'istituto della sospensione necessaria del processo, al fine di evitare la contraddittorietà di giudicati (in tale senso, costantemente, Cassazione civile, sentenze n. 4326 del 28 aprile 1998, n. 12596 del 16 ottobre 2001 e n. 8833 del 18 giugno 2002).

Estinzione del giudizio di rinvio.

      Una urgente e necessaria riforma riguarda il caso di mancata riassunzione del processo in caso di rinvio da parte della Corte di cassazione.
      Oggi, l'articolo 63, comma 2, del citato decreto legislativo n. 546 del 1992, stabilisce tassativamente che: «Se la riassunzione non avviene entro il termine di cui al comma precedente o si avvera successivamente ad essa una causa di estinzione del giudizio di rinvio l'intero processo si estingue».
      Ciò comporta l'assurdo che si rende definitivo l'atto impugnato, indipendentemente da ciò che è stato deciso nei precedenti gradi del giudizi.
      Infatti, l'Agenzia del territorio, con la circolare n. 8 del 20 giugno 2007 (si veda anche l'articolo di Sergio Trovato in Il Sole 24 ore. Norme e tributi del 21 giugno 2007, pagina 29), ha precisato, sulla base del parere dell'Avvocatura dello Stato reso con nota n. 63883 del 30 maggio 2007, che la mancata riassunzione del giudizio di rinvio rende definitivo l'atto di accatastamento originariamente impugnato. «In altri termini, pur non potendosi escludere, in assoluto, che l'Agenzia possa aver l'interesse ad assumere tale iniziativa, in presenza di una utilità concreta ed attuale, comunque connessa all'accoglimento del gravame da parte del giudice di rinvio o di una pronuncia conclusiva sulla controversia, l'eventuale interesse alla riassunzione del giudizio deve ritenersi di norma riferibile sempre in capo al contribuente- ricorrente, tenuto conto che l'estinzione del processo comporta la definitività dell'atto originariamente impugnato».
      Secondo noi, invece, per evitare l'assurdo di cui sopra, in sede di riforma, l'articolo 63, comma 2, deve determinare l'estinzione del processo solo nel grado in cui si trova e, di conseguenza, si deve tener conto soltanto della sentenza impugnata; solo in questo modo tutte le parti processuali, in base ai propri interessi, sono coinvolte nel giudizio di rinvio e non soltanto il contribuente, come oggi avviene.

 

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      In definitiva, tenuto conto della peculiarità delle controversie tributarie, può ritenersi applicabile il principio di cui all'articolo 338 del codice di procedura civile, proprio per evitare l'assurdo che debba essere sempre il contribuente ad attivarsi per evitare la definitività dell'originario atto impugnato.

Appello. Ricorso per cassazione.

      In tema di impugnative, occorre tenere conto dei seguenti princìpi:

A) Appello: deposito della copia.

      L'articolo 3-bis, comma 7, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, ha modificato l'articolo 53, comma 2, del citato decreto legislativo n. 546 del 1992, stabilendo che «Ove il ricorso non sia stato notificato a mezzo ufficiale giudiziario, l'appellante deve, a pena di inammissibilità, depositare copia dell'appello presso l'ufficio di segreteria della commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata».
      La dottrina, fin dal primo momento, ha rilevato il fatto che la norma non fissa il termine entro il quale il citato deposito deve avvenire, per cui sono sorte varie interpretazioni sul punto, anche da parte di presidenti delle commissioni tributarie.
      Infatti, il presidente della commissione tributaria regionale della Puglia, Salvatore Paracampo, con nota n. 113 del 3 maggio 2007, ha precisato: «La nuova norma non fissa un termine entro il quale il citato deposito deve avvenire ma, tenendo conto della funzione dell'adempimento e del fatto che la ricevuta dovrebbe essere allegata al fascicolo di parte, il deposito non potrebbe avvenire dopo la costituzione dell'appellante».
      Pertanto, in sede di riforma, per dare certezze processuali alle parti, abbiamo previsto il termine perentorio di trenta giorni dalla proposizione dell'appello (articolo 53, comma 3), a pena di inammissibilità, rilevabile anche d'ufficio.

B) Appello: autorizzazione agli uffici.

      Sull'attuale necessità della preventiva autorizzazione agli uffici di presentare appello è sorto un contrasto in seno alla Corte di cassazione.
      Infatti, ultimamente, la Corte di cassazione, con la sentenza n. 14912 del 28 giugno 2007, non ritiene più necessaria la suddetta autorizzazione, tenuto conto che l'Agenzia delle entrate è un organismo autonomo rispetto al Ministero dell'economia e delle finanze; questa pronuncia, però, si pone in contrasto con altre sentenze che hanno affermato princìpi diversi. Infatti, con la sentenza n. 20516 del 22 settembre 2006 la Corte di cassazione ha giudicato inammissibile l'appello proposto dall'ufficio locale dell'Agenzia delle entrate, poiché l'autorizzazione da parte della direzione regionale non era stata rilasciata prima della notifica dell'atto di appello (vedi anche Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 13196 del 2007).
      A questo punto, anche in questo caso, per dare certezze alle parti, in sede di riforma è opportuno non prevedere più alcuna preventiva autorizzazione, tenuto conto della nuova organizzazione autonoma dell'Agenzia delle entrate, rispetto al Ministero dell'economia e delle finanze (articolo 52, comma 1), in base all'articolo 8, comma 2, del decreto legislativo n. 300 del 1999.

C) Ricorso per cassazione.

      Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione l'onere del ricorrente per cassazione di descrivere i fatti di causa può ritenersi adempiuto anche con la riproduzione del testo della sentenza impugnata, ma a condizione che questa sia a sua volta chiaramente illustrativa della fattispecie particolare e concreta oggetto della controversia, cosicché il rischio che il fatto di specie ultima sia stato descritto dal giudice di appello in maniera insufficiente è a totale carico del ricorrente, restando precluso ai giudici di legittimità l'esercizio sia di ogni potere

 

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cognitivo degli atti di causa sia di qualsivoglia potere di supplenza delle parti nell'adempimento del loro onere dichiarativo (in tale senso, Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenze n. 24480 del 17 novembre 2006 e n. 9040 del 16 giugno 2003).
      Inoltre, sempre in tema di ricorso per cassazione, la Corte ha precisato che il dottore commercialista non può mai comparire in procura neppure in aggiunta all'avvocato, che abbia sottoscritto il ricorso (Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 5712 del 18 aprile 2001).
      E, ancora, si nega che il commercialista possa notificare in proprio la sentenza senza l'interposizione dell'ufficiale giudiziario, in quanto semmai si tratta di un potere riservato soltanto all'avvocato, in base alla legge 21 gennaio 1994, n. 53 (Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 6166 del 2 maggio 2001).

Conciliazione giudiziale anche in appello.

      Da quanto fino ad ora schematicamente esposto, senza alcuna pretesa di compiutezza, può, intanto, senz'altro confermarsi valido il criterio normativo cosiddetto «misto» del diritto processuale tributario, distinguendo tra positivi richiami, specifiche esclusioni e adattamenti filtrati di singole norme o gruppi di norme di procedura civile rispetto alla riforma del processo tributario, in questa sede delineato.
      Un esempio in tal senso è dato dall'istituto della conciliazione giudiziale (articolo 48), che deve tenere conto dei seguenti princìpi:

          1) la Corte di cassazione, sezione tributaria, con l'importante sentenza n. 9222 del 18 aprile 2007, anche alla luce degli insegnamenti della Corte costituzionale esposti con la sentenza n. 276 del 2000, ha chiarito che le semplici udienze di rinvio non devono precludere la possibilità della conciliazione, tenuto conto del canone della ragionevole durata del processo;

          2) la Corte di cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 21325 del 3 ottobre 2006, richiamando peraltro princìpi precedentemente formulati (Cassazione, sezione tributaria, sentenze n. 8455 del 22 aprile 2005 e n. 12314 del 6 ottobre 2001) ha precisato che con l'istituto in questione le parti determinano convenzionalmente l'imponibile e l'imposta dovuta e, di conseguenza, il rapporto di imposta controverso assume un assetto negoziale che si sostituisce integralmente a quello autoritativo anteriore alla procedura conciliativa. Pertanto, nell'ipotesi in cui nell'atto di conciliazione l'imposta sia quantificata in maniera errata, l'ufficio non può e non deve procedere all'emissione di un atto rettificativo, potendo invocare l'applicazione della disciplina dell'errore di calcolo solamente ove sussistano le condizioni previste dal codice civile (articolo 1430 del codice civile). In particolare, secondo la Corte di cassazione, «l'errore di calcolo che dà luogo alla sola rettifica del contratto ricorre allorquando in operazioni aritmetiche, posti per fermi i dati da computare ed il criterio matematico da seguire, si incorre in una svista materiale, rilevabile prima facie in base ai dati ed al criterio predetti ed emendabile con la semplice ripetizione del calcolo; non ricorre, invece, tale errore allorché la falsa conoscenza riguardi i dati aritmetici o il criterio matematico in base ai quali debba essere effettuato il calcolo, il quale, posti i dati ed il criterio seguiti, è invece esatto (Cassazione n. 1708 del 1969)» (sentenza n. 21325 del 2006);

          3) infine, nel progetto di riforma, abbiamo previsto la possibilità di poter conciliare la controversia anche in appello (articolo 48, comma 7), logicamente riparametrando l'abbattimento delle sanzioni nella misura del 50 per cento.

      Nella prima formulazione normativa della conciliazione era possibile, nel rispetto delle ulteriori condizioni stabilite, effettuarla anche in secondo grado e persino in Commissione centrale.
      Si può, quindi, notare come l'istituto della conciliazione abbia subìto nel tempo

 

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un progressivo arretramento delle preclusioni processuali.
      Non si capisce perché non si debba consentire alla parte di poter conciliare anche in appello (come, per esempio, avviene nel campo penale ), con la possibilità, peraltro, per il fisco di poter incamerare una maggiore somma a titolo di sanzione amministrativa.
      Secondo noi, per realizzare un «giusto processo» tributario, rispettoso dei requisiti costituzionali degli articoli 24 e 111 della Costituzione, bisogna abbandonare la logica di privilegiare la celerità del giudizio, giustificata dal fatto di eliminare arresti o ritardi che inciderebbero in modo particolarmente negativo nella segmentazione del prelievo in atti impugnabili, normativamente predeterminati, e nel sistema di riscossione dei tributi (in tale senso, Cesare Glendi, contra Enrico Allorio).
      Il mito della speditezza e della celerità del processo non deve mai pregiudicare, come purtroppo oggi accade, il diritto del cittadino-contribuente di avere un processo «equo» senza limitazioni difensive o processuali, in modo da poter pagare le «effettive» imposte in base alla propria capacità contributiva.
      Infatti, il rispetto dei diritti di difesa imporrà al fisco più delicatezza nei controlli, soprattutto per quanto riguarda gli accertamenti basati sugli studi di settore e sul redditometro, anche familiare.

Sospensione dell'atto impugnato: eventuale appello.

      La legge 30 dicembre 1991, n. 413, di delega per la riforma del contenzioso tributario, già all'articolo 30, comma 1, lettera h), non prevedeva espressamente l'inimpugnabilità dell'ordinanza in tema di sospensione dell'atto impositivo, per cui non si riesce a capire perché il legislatore, nell'attuale processo, non ha previsto l'eventuale appello.
      In sede di riforma è opportuno colmare questo ingiustificato vuoto legislativo, consentendo alla parte interessata, così come avviene nel giudizio amministrativo, di poter proporre appello ovvero l'ordinanza. E ciò può tornare utile sia al contribuente, in caso di rigetto, sia al fisco, in caso di accoglimento, realizzandosi in tale modo una perfetta parità processuale, senza la lesione del diritto di difesa.
      Se da più parti, giustamente, si auspica un riconoscimento formale della giurisdizione tributaria in posizione paritaria rispetto a quella ordinaria e amministrativa, persino a livello costituzionale, è bene sin da ora, per quanto possibile, uniformare le procedure, anche a livello di sospensive.
      Infatti, è opportuno ulteriormente ribadire il principio dell'articolo 24 della Costituzione che contraddistingue lo Stato di diritto, secondo cui chi subisce qualsiasi misura afflittiva, cioè lesiva di sue posizioni soggettive, ha sempre il diritto di difendersi attraverso un processo equo, agevole ed efficace tra parti messe effettivamente su un piano di perfetta parità (articolo 111 della Costituzione), senza alcuna limitazione, distinzione o, peggio, supposta superiorità di una parte rispetto all'altra.
      Oltretutto, con la riforma auspicata, si rende coerente il sistema con quanto previsto in tema di sanzioni amministrative, per le quali, invece, oggi, è prevista la possibilità della sospensione da parte dell'organo di appello (articolo 19, comma 2, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472).
      Allora, non si riesce a comprendere la logica di consentire la sospensione in grado di appello solo per le sanzioni e non anche per i tributi, soprattutto quando le due entità sono intimamente connesse a seguito della notifica di un unico avviso di accertamento.
      Ultimamente, la commissione tributaria regionale di Bolzano, con l'ordinanza n. 4 del 6 agosto 2007, ha confermato che in secondo grado non è possibile sospendere i pagamenti e ciò non è costituzionalmente illegittimo.
      La soluzione prospettata, invece, sanerebbe questa ingiustificata e illegittima diversità.

 

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      Infine, nella presente proposta di legge di riforma, è bene ribadire il concetto che la sospensiva può essere concessa, anche in assenza di una richiesta effettiva di pagamento (per esempio, con cartella esattoriale), perché se le singole leggi d'imposta obbligano gli uffici, senza alcuna discrezionalità, a iscrivere a ruolo le imposte e gli accessori a titolo provvisorio, il contribuente deve poter anticipare tali iniziative, senza essere costretto ad attendere le richieste con il rischio di dover pagare prima della fissazione dell'udienza di sospensione.
      Anche in questo modo non si limita né si mortifica il diritto di difesa, ma si consente al cittadino-contribuente, e al suo difensore, di potersi tutelare preventivamente.

Sospensione dell'esecuzione delle sentenze.

      C'è un altro esempio eclatante, oggi, sulla mancanza di parità processuale fra parte pubblica e parte privata. È noto, infatti, che la sentenza non definitiva del contribuente (ad esempio, per un rimborso o per le spese di giudizio) non può essere utilizzata in un'esecuzione contro il fisco, ma bisogna aspettare, persino per molti anni, la sentenza definitiva e, di fronte all'ostinato comportamento omissivo dell'Amministrazione finanziaria, bisogna attivare l'ulteriore giudizio di ottemperanza, di cui, peraltro, tratteremo oltre. Al contrario, l'Agenzia delle entrate, per esempio a seguito di una sentenza di primo grado, anche se tempestivamente appellata, può obbligare il contribuente a pagare i due terzi dell'imposta, degli interessi e delle sanzioni.
      Nell'attuale situazione, salvo qualche timido tentativo dottrinario, si è sempre esclusa la possibilità di chiedere, in grado di appello, la sospensione dell'esecuzione della sentenza.
      In sede di riforma, proprio per evitare gli assurdi di cui sopra, abbiamo previsto la possibilità di applicare l'articolo 283 del codice di procedura civile (articolo 61, comma 1) e l'articolo 373 del medesimo codice di procedura civile (articolo 63, comma 3). Cosa che, fino ad oggi, hanno avuto il coraggio di fare soltanto i giudici della commissione tributaria regionale della Puglia, sezione staccata di Lecce, con ordinanza del 22 agosto 2001 (presidente e relatore Sodo), e sezione staccata di Taranto, con l'ordinanza del 15 giugno 2005, n. 31 (presidente e relatore Bruschi; si veda Corriere tributario Ipsoa, n. 36, 2005, pagine 2861 e seguenti, con nota critica di Glendi), nonché i giudici della commissione tributaria regionale del Lazio, con ordinanza del 14 gennaio 1999, e del Molise, con ordinanza del 29 luglio 1998, e della commissione tributaria di Bologna, con ordinanza del 28 giugno 1996.
      Oltretutto, lo stesso Glendi, uno dei padri dell'attuale processo tributario, pur criticando le suddette ordinanze nell'articolo citato, consiglia di rimettere gli atti alla Corte costituzionale per la lesione dei princìpi contenuti negli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione oppure, in caso di esito negativo, consiglia un immediato intervento legislativo, tenuto conto che «la spiccata specificità del processo tributario non può in alcun modo giustificare il mancato riconoscimento della tutela cautelare del contribuente oltre il primo grado di giudizio, tenuto conto, tra l'altro, che, di converso, in tale processo, lo stesso contribuente può esperire il giudizio di ottemperanza per la condanna al rimborso della somma indebitamente versata solo dopo che la sentenza sia passata in giudicato» (Cesare Glendi, articolo citato, pagina 2871).
      Oggi, tenuto conto che le suddette eccezioni di incostituzionalità sono state rigettate dalla Corte costituzionale, con l'ordinanza n. 119 del 21 marzo 2007, è chiaro e inevitabile che l'unica strada percorribile è quella indicata nel presente progetto di legge, proprio per tutelare al massimo il cittadino-contribuente ed evitare gli assurdi in precedenza denunciati ed evidenziati.

Giudizio di ottemperanza.

          1) Nel giudizio di ottemperanza occorre, innanzitutto, codificare (articolo 71,

 

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comma 14) il principio più volte ribadito dalla Corte di cassazione a sezioni unite (sentenze n. 18120 del 13 settembre 2005 e n. 10725 del 22 luglio 2002), in base al quale sussiste sempre la giurisdizione del giudice ordinario e non di quello tributario, ove l'ufficio abbia comunque riconosciuto il diritto al rimborso e la precisa quantificazione delle somme dovute, sicchè non residuino questioni circa l'esistenza dell'obbligazione tributaria, il quantum del rimborso o le procedure con le quali lo stesso deve essere effettuato. Quanto sopra per dare certezze giuridiche alle parti, impedendo loro di adire inutilmente giudici incompetenti, con gravi perdite di tempo;

          2) infine, si precisa che il commissario ad acta, sostituendosi in tutto e per tutto agli uffici inadempienti, può sempre utilizzare il conto sospeso, per accelerare al massimo le procedure di rimborso (articoli pubblicati da Il Sole 24 ore del 26 febbraio 2002, pagina 23, e del 3 maggio 2002, pagina 23, in merito a procedure adottate in vari giudizi di ottemperanza).

Applicazione della «legge Pinto».

      La Corte di cassazione nell'applicazione della legge 24 marzo 2001, n. 89 (cosiddetta «legge Pinto» per l'equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo), dopo un'iniziale periodo di netta chiusura (sentenze n. 18739 del 17 settembre 2004 e n. 20675 del 25 ottobre 2005) ha ultimamente corretto il tiro (sentenze n. 17499 del 30 agosto 2005 e n. 21651 dell'8 novembre 2005).
      Con quest'ultima sentenza, in particolare, la Corte ha ritenuto applicabile la legge Pinto anche nel processo tributario limitatamente:

          1) al giudizio di ottemperanza (articolo 70) e a quello vertente sull'individuazione del soggetto di un credito di imposta non contestato nella sua esistenza o riguardante rimborsi di imposte non dovute;

          2) alla materia penale, intesa quest'ultima come comprensiva anche delle controversie relative all'applicazione di sanzioni tributarie, ove queste siano commutabili in misure detentive ovvero siano, per la loro gravità, assimilabili sul piano dell'afflittività ad una sanzione penale.

      Oggi, in sede di riforma, tenuto conto che anche il processo tributario è destinatario delle garanzie sancite nel novellato articolo 111 della Costituzione, a pena di una ingiustificata disparità di trattamento di posizioni, censurabile davanti alla Consulta, è chiaro che si deve codificare il principio della piena applicabilità della legge Pinto anche al processo tributario (articolo 72) proprio in ossequio all'articolo 111, secondo comma, della Costituzione, che prevede «la ragionevole durata».

Considerazioni conclusive.

      La peculiarità e la diversità del processo tributario, che pure costituiscono un forte segnale positivo, sono state, tuttavia, spesso utilizzate per distinguere, purtroppo, in chiave negativa e restrittiva il ruolo del rito tributario, tanto da affermare, in termini fortemente critici, «la irragionevole diversità» (così Enrico De Mita, in Il Sole 24 ore del 1o giugno 2000) del processo tributario rispetto agli altri riti processuali.
      La disamina effettuata nella presente relazione evidenzia, invece, netta la volontà del futuro riformatore di affrancare definitivamente il processo tributario da mere finalità di recupero di gettito fiscale e di costruirlo, invece, quale «vero» processo ispirato, essenzialmente, ai princìpi fondamentali della paritaria partecipazione delle parti alla vicenda processuale, regolata in tutte le sue scansioni da un giudice terzo e imparziale (anche all'apparenza), sia pure con tutti i limiti insiti nella sua natura di rapporto processuale strettamente collegato all'impugnazione di un atto (sulla necessaria imparzialità del giudice tributario si rinvia all'interessante decisione del Consiglio di Stato, sezione IV, n. 3760 del 22 maggio 2007; si veda

 

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anche Il Fisco, n. 30, 2007, pagine 10756 e seguenti).
      Le differenziazioni fra i modelli processuali e le rispettive forme di tutela, pur essendo di per sé legittime, non devono mai compromettere in termini irragionevoli l'esigenza di una indiscriminata e paritaria attuazione del «giusto processo», il cui più esteso riscontro si ha, come è noto, nella cognizione e nella tutela «piena», che soltanto il processo ordinario sui diritti è in grado di assicurare.
      Ecco perché, in sede di riforma, è necessario «processualizzare» al massimo il processo tributario, per mettere tutte le parti su un piano di perfetta parità, senza limitazioni di sorta nella fase istruttoria e con la possibilità di potersi difendere «ad armi pari».
      Pertanto, la pur giustificabile specialità dei diversi riti e modelli, a parità di situazioni soggettive tutelabili, deve divergere il meno possibile da quel modello processuale ordinario, sia in rapporto alle forme di tutela accertabili dal giudice sia, soprattutto, in rapporto ai mezzi probatori, che siano a disposizione di tutte le parti, nessuna esclusa o limitata, e del giudice tributario per il sereno accertamento dei fatti controversi, senza piegarsi alla logica di una presunta celerità lesiva dei diritti del cittadino-contribuente.
      Infatti, non bisogna mai dimenticare il costante insegnamento della Corte di cassazione, da ultimo con la sentenza n. 11217 del 16 maggio 2007, secondo cui il processo tributario ha il fine non solo di eliminare l'atto impugnato ma di giungere ad una decisione di merito, sostitutiva sia della dichiarazione del contribuente sia dell'avviso di accertamento dell'Amministrazione finanziaria.
      In definitiva, il processo tributario è un processo di «impugnazione-merito», in quanto attribuisce al giudice la cognizione del «rapporto tributario» e implica per il giudice adito il potere-dovere di quantificare la pretesa tributaria entro i limiti posti dalle domande di parte (Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 3309 del 19 febbraio 2004).
      Pertanto, proprio tenuto conto dei suddetti princìpi, il processo tributario deve essere riformato per consentire al cittadino-contribuente di potersi difendere liberamente, serenamente e senza limitazioni.
      L'emergenza nazionale del fisco, denunciata dal presidente della Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo (Il Sole 24 ore, 24 agosto 2007), ricomprende anche il processo tributario perché se il cittadino-contribuente è posto effettivamente nelle condizioni di potersi difendere avrà maggiori possibilità di successo nel contrastare i soprusi del fisco, senza proclamare inutili e illegittimi scioperi fiscali.
      Gli incassi del fisco sono cresciuti (e continuano a crescere) ben oltre le previsioni, ma in misura identica è cresciuto il senso di sfiducia, di insofferenza e, talvolta, di rabbia di ampi strati di cittadini-contribuenti e di professionisti.
      Il prelievo fiscale, oggi, resta decisamente oneroso per le imprese, per i lavoratori autonomi e per le società.
      Si è, giustamente, puntato con forza sul contrasto all'evasione fiscale ma le modalità utilizzate hanno, in alcuni casi, offerto più l'idea di un vero e proprio accanimento fiscale, che non dell'ordinaria attività di verifica in un «normale» Stato di diritto.
      Appunto per questo è necessario e urgente modificare le norme del processo tributario per consentire al cittadino-contribuente e al suo difensore di potersi efficacemente difendere ad «armi pari», senza alcuna limitazione o preclusione.
 

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